domenica 8 luglio 2007

Prestigiosi viaggi internazionali nell’Europa dell’Est o a Cuba, vita di spiaggia sulle coste del Mar Nero... è il mondo del turismo sovietico, del quale, dopo l’apertura degli archivi, è disponibile qualche prima, documentata ricostruzione (“Turizm. The Russian And East European Tourist Under Capitalism And Socialism”, a cura di Anne E. Gorsuch e Diane P. Koenker, Cornell University Press, Ithaca e Londra, pp.313, $24.95). Dopo i rigori del dopoguerra, l’ascesa delle vacanze comincia nel 1955 con l’avvento di Khrushchev e la destalinizzazione, nel quadro di una nuova politica volta ad assicurarsi la lealtà dei cittadini espandendo consumi e benefici: il numero dei turisti raddoppia tra 1965 e 1980, e si estenderà a circa 1/3 della popolazione sovietica negli ultimi decenni di vita dell’URSS.
L’Inturist, l’organismo di Stato responsabile del turismo internazionale (di cui qualcosa già si sapeva), accoglieva i visitatori stranieri (“La mia nuova guida voleva le mie scarpe” scrive il poeta inglese James Kirkup nel 1966), e conduceva nell’Europa dell’Est dapprima, ai tempi di Stalin, selezionatissimi gruppi composti da membri dell’élite politica, sportiva o culturale, poi anche comuni cittadini (comunque sempre di piena affidabilità). Tuttavia questi nuovi turisti sfiguravano con i loro miseri costumi da bagno, o i provinciali cappelloni di pelo coi copriorecchie, mentre le donne, che trovavano inaspettatamente Paesi più forniti del loro, si facevano prendere dal demone dello shopping socialista (una si portò dietro per tutto il viaggio delle ingombranti tende acquistate alla prima tappa), con grande preoccupazione dei capigruppo. Più seriamente, questi apripista si destreggiavano tra le diversità nazionali, che davano interesse al viaggio, e la prescritta fraternità socialista.
Le parti più nuove del volume riguardano senza dubbio l’emergere negli stessi anni della civiltà balenare, anche se fino agli anni ’70 il “borghese” turismo di svago sarà guardato con diffidenza: se il lavoro socialista realizzava l’uomo sovietico, che bisogno c’era di ricreazione? Anche etimologicamente “turizm” implicava esercizio fisico e una crescita intellettuale e morale condivisa, e per questo si raccomandava il viaggio in gruppo, e un uso appropriato del tempo libero: conferenze, escursioni e film piuttosto che balli, partite a carte, bevute. Ma i nuovi comportamenti furono più forti dell’ideologia: anche l’uomo socialista voleva sole, mare, sabbia, sesso, scopriva l’abbronzatura, affittava (!) gli occhiali da sole... E così masse di bagnanti si riversarono sul Mar Nero, e Yalta e Sochi divennero la “Riviera sovietica”, anche se la costa era ripida e rocciosa, e le spiagge affollate e sporche (con le zone migliori riservate ai privilegiati); d’altronde anche la vita quotidiana era basata su ben altri standard di quella occidentale...
L’industria turistica non riuscì mai a rispondere alla domanda crescente, anche se l’ottavo e nono piano quinquennale (1965-75) destinarono molte risorse alla costruzione di strutture. Anche in quest’ambito la sfida col capitalismo fu persa, e ancora una volta i cittadini impararono ad arrangiarsi. I sempre più numerosi viaggiatori individuali (chiamati con fastidio “turisti selvaggi”) partivano con le loro auto, si procuravano di straforo gli indispensabili voucher (putevka), o affittavano case da privati (una pratica vietata), al peggio campeggiavano dove capitava, o dormivano in auto. Spesso i desideri degli individui prevalsero così sugli schemi ideologici del sistema, e vuol dire qualcosa se nell’ultimo periodo dell’URSS “gita turistica” (turistskii pokhod) divenne un eufemismo che indicava due ragazzi che partivano per un week-end di sesso con tenda e sacco a pelo...
Clavis

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