martedì 13 novembre 2007


Ogni viaggio è la prova generale di una fuga, e prima o poi un pensiero impertinente si affaccia alla mente: cosa succederebbe se sparissi per sempre? Addio alle solite facce, alle routine professionali e coniugali, e naturalmente anche a tasse, bollette, burocrazia... Poi, nella maggior parte dei casi, si sceglie di restare nel proprio mondo, forse per pigrizia, ma naturalmente anche per mille (buone) ragioni. Ma cosa accomuna chi invece ha fatto davvero il grande passo? Lo psicologo e criminologo Roberto Di Marco ha raccolto in forma anonima 15 racconti di espatriati che hanno deciso di inventarsi una nuova vita in un Paese lontano (con un test per capire se si è pronti a imitarli).
Perché si recide ogni legame con il proprio luogo d’origine? A volte naturalmente per necessità, ad esempio per fuggire dalla malavita, dal fisco, dai debitori, oppure per sottrarsi a una realtà frustrante e inadeguata, per bisogno di avventura e di arricchimento interiore. Il libro è un po’ disordinato, e la distinzione tra i criteri e le storie presentate non è sempre chiara, ma di certo lasciare tutto non è mai una scelta facile, e per compierla occorre spesso la spinta di un evento traumatico: un lutto, la minaccia della povertà, di uno scandalo o simili, anche se alcuni dei protagonisti sembrano lasciar volutamente peggiorare la propria situazione per crearsi un alibi per la fuga. A pochi invece partire per sempre riesce naturale, e sono quelli a cui una vita sola non basta, come uno degli intervistati, prima giovane hippy, poi imprenditore, padre di famiglia e infine avventuriero.
Una volta sciolte le catene della quotidianità gli esiti sono imprevedibili, come nel caso di quel veneto, intermediario d’affari con una vita senza sorprese, che finirà pilota d’idrovolante nelle Filippine, dove continuerà a guardare il programma preferito – ovviamente “Chi l’ha visto?” - sul satellite. Mentre un torinese, dopo aver perduto moglie e figlio in un incidente stradale, e aver scoperto che la moglie lo tradiva da sempre, diviene una sorta di cantastorie in un remoto villaggio siberiano.
Quasi sempre il Paese prescelto è in Asia, in Africa, o in America del sud, logicamente perché è più difficile essere ritrovati, ma anche perché lo spettacolo quotidiano delle sofferenze altrui relativizza e sminuisce le proprie; sono poi parti del mondo dove sopravvivono strutture familiari e di comunità più coese e stabili, e dove l’individuo non si sente abbandonato a sé stesso, come in Occidente.
In quasi nessuno dei percorsi raccontati l’integrazione in un’altra cultura può dirsi interamente riuscita: anche nel caso di maggior successo - lo svedese in Yemen che diventa musulmano, con tanto di moglie e concubine - si avverte un fondo non risolto di misoginia e di rivalsa verso le donne occidentali. E anche quando gli interlocutori sono formalmente cordiali, si ha comunque l’impressione di essere tollerati (e apertamente sfruttati per il proprio denaro) più che accettati. L’espatriato resta sempre sul limite tra due mondi, in una condizione precaria e provvisoria, ma qualcuno ama proprio questa libertà dello straniero (di cui parla bene Magris nel suo “L’infinito viaggiare”) e si gode una vita più spontanea e naturale, senza formalità o ruoli.
E dunque, per tornare al titolo, “Cosa ti porti dietro se sai di non tornare più?” La risposta sembra essere: il passato, che in qualche forma riaffiora sempre, nella nostalgia delle persone o dei luoghi, in un senso di colpa, nell’impossibilità dolorosa di risolversi interamente, senza residui, in un destino diverso da quello che ci è toccato in sorte.

Roberto Di Marco, "Cosa ti porti dietro se sai di non tornare più?”, fbe, Milano 2007, pp.288, € 13,00.

Etichette: