La “civiltà balneare” prese forma sulle spiagge del Mediterraneo nella seconda metà del secolo scorso: cabine, sdraio, ombrelloni, bagnini, castelli di sabbia, juke-box... curiosamente tutto fu inventato qui, in questo piccolo mare affollato di memorie storiche e religiose. L’America e l’Australia adottarono con entusiasmo questo modello di vacanza, aggiungendovi soltanto un elemento naturalistico (le palme), e il surf. Quest’ultimo tuttavia fu molto più di un dettaglio, come racconta “Elogio del surf”, il libro di Madeira Giacci che offre, per la prima volta in italiano, una buona selezione di informazioni e un filo conduttore abbastanza solido per ripercorrere, naturalmente con molta partecipazione, le non banali vicende del surf.
Il surf è originario dell’arcipelago delle Hawaii, dove veniva praticato con una forte valenza spirituale: il termine hawaiano He’e nalu significa infatti “scivolare sulle onde”, ma anche “pensare, riflettere, cercare la verità” o kantianamente (!) “sospendere il proprio giudizio”. Con la colonizzazione dei bianchi il surf declinò, così come altre manifestazioni della cultura di questo popolo, ma dopo l’annessione delle Hawaii agli Stati Uniti (1898) fu riscoperto dai turisti, e importato in California, che resterà sempre la sua terra d’elezione, insieme all’Australia. In Italia com’è noto il surf ha attecchito poco, anche per la mancanza di coste e onde adatte (meglio il Tirreno dell’Adriatico da questo punto di vista), anche se ha conosciuto una certa diffusione verso la fine degli anni Settanta.
L’apparente semplicità del surf cela ai non esperti la varietà degli stili, conseguente anche all’incessante evoluzione tecnica della disciplina, con un punto di svolta nella seconda metà degli anni ’60, quando le tavole diventano più corte e leggere (Shortboard), aprendo la via a nuove figure e acrobazie, e soprattutto permettendo di esplorare la “stanza verde”, scivolando lungo il cavo dell’onda avvolti in un tunnel di acqua e di luce. Più controversa la recente introduzione dei mezzi a motore (un’eresia per i puristi) nel surf da traino (Tow-in), che consente di affrontare onde gigantesche grazie alla maggiore velocità di partenza.
È intorno agli anni ’50 del Novecento che il surf raggiunge la piena maturità, si struttura in una forte sottocultura e genera mode e tendenze: ad esempio propone un modo di vestire volutamente non ricercato, comodo e informale, e ha la sua colonna sonora nelle canzoni dei Beach Boys (nonostante che solo uno di loro sapesse davvero surfare...). Il surf è anche uno stile di viaggio, il surf-safari (o surfari), lunghi viaggi intorno al globo rincorrendo l’estate infinita e l’onda perfetta (è il tema del film “Endless Summer”, 1966), o semplici scorribande lungo le coste della California a bordo delle “Woodies”, vecchie auto usate degli anni Trenta e Quaranta coi pannelli di legno sulle fiancate, senza vetro né sedili posteriori per trasportare più agevolmente le tavole e dormire al bisogno (lasceranno poi il posto agli altrettanto caratteristici furgoni Volkswagen Combi). Soprattutto il surf diventa il simbolo di uno stile di vita rilassato, disimpegnato: la spiaggia, i capanni, i falò, le scazzottate, le ragazze in bikini, le feste, gli amori estivi, la chitarra... Un’esperienza che per la maggior parte (ma non per tutti) si concludeva alla fine dell’adolescenza, con le responsabilità dell’età adulta, e che sarà ricordata con struggente rimpianto quando i giovani cominceranno a partire per la guerra in Vietnam.
Il surf ha presto attirato l’attenzione dei media, che hanno cavalcato il mito della California in decine di film di successo (il più famoso naturalmente “Un mercoledì da leoni”), e anche in conseguenza di questo il surf è stato rafforzato e al tempo stesso insidiato dalla commercializzazione e dal professionismo, provocando reazioni contrastanti, tra l’entusiasmo di chi scopriva di poter surfare per tutta la vita, e il disprezzo di chi considerava le novità corruzione.
Come si vede, anche senza sposare il punto di vista dell’autrice, spesso trascinata dalla sua passione (“Il surf è una filosofia”), senz’altro una storia del surf ha un senso e un interesse anche per chi non lo pratica. Curioso – o forse è un segno dei cambiamenti in corso - che questa storia sia stata scritta da una donna, considerato che il surf ha sempre conservato una forte connotazione maschile/maschilista, con le donne relegate al ruolo di fidanzate e spettatrici adoranti (“beach bunnies”); ma forse ben presto “You surf like a girl” cesserà di essere, come ancora è, un terribile insulto...
Madeira Giacci , “Elogio del surf”, Castelvecchi, Roma 2006, pp.220, € 16,00.
Il surf è originario dell’arcipelago delle Hawaii, dove veniva praticato con una forte valenza spirituale: il termine hawaiano He’e nalu significa infatti “scivolare sulle onde”, ma anche “pensare, riflettere, cercare la verità” o kantianamente (!) “sospendere il proprio giudizio”. Con la colonizzazione dei bianchi il surf declinò, così come altre manifestazioni della cultura di questo popolo, ma dopo l’annessione delle Hawaii agli Stati Uniti (1898) fu riscoperto dai turisti, e importato in California, che resterà sempre la sua terra d’elezione, insieme all’Australia. In Italia com’è noto il surf ha attecchito poco, anche per la mancanza di coste e onde adatte (meglio il Tirreno dell’Adriatico da questo punto di vista), anche se ha conosciuto una certa diffusione verso la fine degli anni Settanta.
L’apparente semplicità del surf cela ai non esperti la varietà degli stili, conseguente anche all’incessante evoluzione tecnica della disciplina, con un punto di svolta nella seconda metà degli anni ’60, quando le tavole diventano più corte e leggere (Shortboard), aprendo la via a nuove figure e acrobazie, e soprattutto permettendo di esplorare la “stanza verde”, scivolando lungo il cavo dell’onda avvolti in un tunnel di acqua e di luce. Più controversa la recente introduzione dei mezzi a motore (un’eresia per i puristi) nel surf da traino (Tow-in), che consente di affrontare onde gigantesche grazie alla maggiore velocità di partenza.
È intorno agli anni ’50 del Novecento che il surf raggiunge la piena maturità, si struttura in una forte sottocultura e genera mode e tendenze: ad esempio propone un modo di vestire volutamente non ricercato, comodo e informale, e ha la sua colonna sonora nelle canzoni dei Beach Boys (nonostante che solo uno di loro sapesse davvero surfare...). Il surf è anche uno stile di viaggio, il surf-safari (o surfari), lunghi viaggi intorno al globo rincorrendo l’estate infinita e l’onda perfetta (è il tema del film “Endless Summer”, 1966), o semplici scorribande lungo le coste della California a bordo delle “Woodies”, vecchie auto usate degli anni Trenta e Quaranta coi pannelli di legno sulle fiancate, senza vetro né sedili posteriori per trasportare più agevolmente le tavole e dormire al bisogno (lasceranno poi il posto agli altrettanto caratteristici furgoni Volkswagen Combi). Soprattutto il surf diventa il simbolo di uno stile di vita rilassato, disimpegnato: la spiaggia, i capanni, i falò, le scazzottate, le ragazze in bikini, le feste, gli amori estivi, la chitarra... Un’esperienza che per la maggior parte (ma non per tutti) si concludeva alla fine dell’adolescenza, con le responsabilità dell’età adulta, e che sarà ricordata con struggente rimpianto quando i giovani cominceranno a partire per la guerra in Vietnam.
Il surf ha presto attirato l’attenzione dei media, che hanno cavalcato il mito della California in decine di film di successo (il più famoso naturalmente “Un mercoledì da leoni”), e anche in conseguenza di questo il surf è stato rafforzato e al tempo stesso insidiato dalla commercializzazione e dal professionismo, provocando reazioni contrastanti, tra l’entusiasmo di chi scopriva di poter surfare per tutta la vita, e il disprezzo di chi considerava le novità corruzione.
Come si vede, anche senza sposare il punto di vista dell’autrice, spesso trascinata dalla sua passione (“Il surf è una filosofia”), senz’altro una storia del surf ha un senso e un interesse anche per chi non lo pratica. Curioso – o forse è un segno dei cambiamenti in corso - che questa storia sia stata scritta da una donna, considerato che il surf ha sempre conservato una forte connotazione maschile/maschilista, con le donne relegate al ruolo di fidanzate e spettatrici adoranti (“beach bunnies”); ma forse ben presto “You surf like a girl” cesserà di essere, come ancora è, un terribile insulto...
Madeira Giacci , “Elogio del surf”, Castelvecchi, Roma 2006, pp.220, € 16,00.
Clavis
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