martedì 11 luglio 2006

Il turismo culturale ha conosciuto la sua rivoluzione copernicana da quando un gruppo sempre più consistente di “viaggiatori del gusto” (“food trotter”, “gastronauti”) ha cominciato a scegliere le proprie destinazioni soprattutto in funzione del cibo e del vino, per poi allargare lo sguardo al paesaggio, alla cultura, all’arte e alla storia: esattamente l’opposto di quanto accadeva in passato. È partendo da questa constatazione che Davide Paolini ha raccolto i suoi viaggi enogastronomici, toccando i luoghi e i temi più diversi: l’Australia e la cucina fusion multietnica; il mercato di Tokyo e l’arte culinaria giapponese; i vini della California o del Canada; la Catalogna e la rivoluzione della cucina spagnola, con il prediletto Ferrán Adria; e molto altro ancora, per finire, come ogni viaggio che si rispetti, nella terra d’origine, la Sicilia di Modica e del gelato al gelsomino. Ovunque l’autore vede in atto lo scontro tra una globalizzazione livellatrice del gusto mai abbastanza deprecata, e le identità locali di volta in volta cancellate, preservate o risvegliate (a volte dalla stessa globalizzazione...). E soprattutto Paolini propone l’enogastronomia come una bussola indispensabile al viaggiatore contemporaneo, citando (a più riprese) un Italo Calvino assalito da furori alla Feuerbach: “Il vero viaggio, in quanto introiezione d’un fuori diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (...) Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona.” Da queste premesse (che andrebbero forse contestualizzate, dubito che Calvino le riproporrebbe oggi...) è scaturito un libro di viaggi piacevole, e tutto sommato riuscito (difetti minori qualche ripetizione, o la mancata indicazione dell’anno in cui il viaggio è stato compiuto). Il lettore che non frequenta assiduamente questi temi resterà forse sorpreso nel vedere come la passione enogastronomica sia ormai pienamente adulta e sicura di sé, senza più alcun complesso d’inferiorità, anzi quasi spavalda, se Paolini può scrivere: “Lascia perdere i musei: sono il passato. Non sentirti obbligato a rendere visita alla cultura con la C maiuscola. Non pulsa, non capiresti lo spirito del luogo. (...) Il cibo è cultura tanto quanto la letteratura, la poesia, l’arte, la pittura, la scultura.”
Di certo Paolini non resta prigioniero dei suoi interessi professionali, e dal tavolo del ristorante risale sino ai luoghi di produzione, i campi, le vigne, le cantine, i mulini, le tonnare, i prediletti mercati, in una parola il territorio (o meglio il “terroir”, nella più vasta accezione del termine francese); dimostra in modo convincente che cibi e vini della tradizione sono un buono spunto per scoperte e riscoperte, per viaggi non convenzionali nutriti di emozioni e ricordi (anche se alcuni itinerari gastronomici stanno diventando a loro volta un fenomeno di moda...); riesce a recuperare per questa via ampia parte della cultura materiale dei luoghi visitati, e talora sfiora la letteratura, seguendo le orme dei personaggi di Tabucchi, o negli incontri con Montalbán, ma naturalmente lì si ferma. Per andare oltre c’è ancora bisogno di chiese e musei, ma in fondo, al di là di qualche piccola provocazione, questo lo sa bene anche lui.
Davide Paolini, " La geografia emozionale del gastronauta", Sperling & Kupfer, Milano 2006, pp.270, € 16,00.
[Clavis]

1 Comments:

At 1:00 PM, Anonymous Anonimo said...

Poter assaporare il cibo dei luoghi che si visitano aiuta a portare con sè il ricordo degli stessi...Significa gustare il succo del viaggio
Giuliana Guidotti

 

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