mercoledì 5 dicembre 2007


Non è facile immaginare che il romantico acquerello possa ancora dire la sua nel tempo della fotografia digitale, eppure sempre più viaggiatori riscoprono il piacevole esercizio del “carnet di viaggio”, diari di viaggio che alternano testi e disegni, e richiedono dunque eguale abilità nei due ambiti espressivi. I carnet hanno conosciuto la loro età dell’oro tra XVI e XIX secolo quando ogni artista, lontano da casa, aveva con sè un album e un piccolo atelier portatile. I carnet di viaggio hanno così raccontato l’età delle grandi esplorazioni, il Grand Tour italiano, i viaggi borghesi dell’Ottocento, e hanno costituito un genere, minore quanto si vuole, che è stato tuttavia coltivato da pittori e scrittori famosi: basti pensare ai meravigliosi quaderni polinesiani di Gauguin, agli album orientalistici di Delacroix, alle pagine veneziane di Ruskin, ai ricordi romani di Goethe.
L’affermazione del turismo, con i suoi ritmi affrettati, e soprattutto l’introduzione della fotografia provocarono il temporaneo declino del carnet, ma in tempi più vicini a noi i collezionisti e gli autori sono nuovamente aumentati, specie in Francia dove, a Clermont-Ferrand, si tiene una manifestazione a loro interamente dedicata (www.biennale-carnetdevoyage.com). In Italia la rinascita è legata soprattutto all’opera di Stefano Faravelli che, dopo alcuni esperimenti, nel 2005 si è rivolto al grande pubblico con due carnet dedicati a Cina e Mali. Nel frattempo anche altri editori hanno cominciato a proporre queste opere: per esempio l’editore fbe ha appena tradotto il lavoro di Charles Chauderlot, “Pechino. Ultimi sguardi sulla città antica”. Gli autori di carnet sono molto originali e creativi, e utilizzano le tecniche più strane, alternando mete vicine e lontane: per esempio il carnet più originale del 2006 era dedicato all’Antartide (Christophe Verdier, “Antartide. Un’estate al Polo Sud”, EDT), mentre da poco ne è stato pubblicato uno pregevole su Torino (Giacomo Soffiantino e Dario Voltolini, “Torino fatta ad arte”, EDT).
La riscoperta del carnet si lega naturalmente al nuovo apprezzamento per stili di viaggio lenti, ma che proprio per questo consentono di entrare meglio in contatto con i luoghi e le persone. E il carnet è soprattutto una scuola di osservazione, un’educazione dello sguardo: impariamo a comprendere ciò che ci circonda proprio attraverso lo sforzo di raffigurarlo e ricrearlo. Per questo è importante realizzare il proprio carnet, o almeno buona parte di esso, durante il viaggio, e non al ritorno, quando molte impressioni ed emozioni saranno svanite. Una volta a casa, ci sarà comunque tempo e modo di sistemare e completare l’opera.
L’esercizio del carnet di viaggio è consigliabile davvero a tutti, anche a chi non ha un particolare talento artistico. Solidi ed eleganti carnet si possono acquistare a prezzi ragionevoli nei negozi d’arte, ma in fondo basta anche un quaderno di medie dimensioni (meglio se con una copertina rigida). Potrete scrivere le vostre impressioni di viaggio, ma anche chiedere a chi si incontra per via di aggiungervi qualche riga. E se non siete a vostro agio con matita e pennelli, munitevi di forbici e colla: sul carnet si possono infatti incollare foto proprie e altrui, biglietti aerei o dell’autobus, ritagli di giornali locali, cataloghi di musei, menu di ristoranti, foglie e altri oggetti raccolti per strada. Non cercate di raccontare tutto (un carnet non è una guida) ma solo quello che vi ha colpito e che vi ha davvero interessato. Realizzare un carnet è un ottimo esercizio anche per i bambini, che alla fine di una faticosa giornata da turisti potranno ritrovare la tranquillità riordinando idee e impressioni, che si fisseranno per sempre nella memoria. E se sfogliare le nostre fotografie di viaggio a distanza di tempo ci dà spesso poco piacere (e di certo ne dà ben poco agli altri), un carnet saprà senza dubbio destare un più vivo interesse, e ci riporterà con immediatezza al tempo dei nostri viaggi. Anche se non siamo stati in India, a vedere l’elefante...


Un elefante proveniente dall'India fu alloggiato in una stalla oscura.
La gente che non aveva mai visto un simile animale si precipitò ad ammirarlo.
Poiché non si vedeva nulla a causa del buio, le persone si misero a toccare l'animale.
Uno di essi toccò la proboscide e disse: "Questa bestia è fatta come un tubo!"; un altro ne palpò le orecchie: "Lo si direbbe piuttosto simile ad un ventilabro"; un terzo, toccando le zampe disse: "Neanche per sogno! L’elefante è tal quale ad una colonna”.
E così ciascuno di loro si mise a descriverlo a modo suo.
Fu un vero peccato che non avessero una lampada per mettersi d'accordo.

Questo apologo del grande maestro sufi Jalâl-ud Dîn Rûmî (1207-1273) illustra con limpida ironia la parziale verità di ogni religione, e la necessità di ricondurre ogni parte al tutto, rischiarando la scena con la lampada della storia e della ragione. Una luce meridiana di cui tanto più si avverte la necessità in questi tempi oscuri, nei quali le religioni coltivano il gusto disdegnoso dell’identità e della differenza tanto che, come ha argutamente osservato Moni Ovadia, “occorre difendere Dio dai credenti”. La via d’uscita dall’oscurità non è tuttavia un banale sincretismo, ma piuttosto la consapevolezza degli incroci, dei prestiti, degli scambi tra religioni, soprattutto delle radici comuni e delle successive confluenze.
Proprio intorno a questo apologo, che dà anche il titolo al libro, il pittore-filosofo Stefano Faravelli ha costruito il suo carnet di viaggio in India, dove le più diverse religioni convivono in precaria ma durevole unione, costituendo l’elefante mistico: proboscide islam, orecchio sikh, zampa indù... Il filo dell’itinerario, che si è dipanato attraverso i luoghi sacri di nove stati dal Punjab al Tamil Nadu, ha così cucito tra loro la Dehli dei grandi monumenti moghul e delle più nascoste confraternite sufi; il tempio d’oro dei Sikh ad Amritsar; Lucknow città scita; i pellegrinaggi buddisti a Sanchi; i volti e i riti dei parsi, gli ultimi zoroastriani, per le strade di Bombay; i Jaina a Shravanabelgola; ma anche la Goa gesuita con le sue chiese tridentine, o la piccola e struggente sinagoga di Mattancherry. Visioni di Dio che nuotano nel grande mare dell’induismo, celebrato naturalmente a Varanasi, la città più antica, il punto da cui l’universo stesso si sarebbe espanso secondo quella religione.
È un’India dove storia e geografia divengono teofania, rivelazione del divino. Qui la danza di Dio ha generato il mondo, modellato paesaggi, impresso ovunque impronte di sè talora appena accennate – un albero, una fonte, la tomba di un santo – talora profonde – montagne e città – in ogni caso con regole proprie e nascoste, secondo l’antico detto: “Se il santo cammina sulla sabbia non lascia traccia, se cammina sulla roccia i suoi piedi vi lasciano l’impronta. Se è al sole non proietta ombra; nell’oscurità una luce emana da lui”. Questi luoghi sono un segnale per i pellegrini che cercano la Via, varchi aperti verso il cielo, porte spalancate su “Colui che apre ogni porta”.
E l’india moderna, il gigante economico, il Paese dell’informatica?, si chiederà il lettore. Nel libro non è quasi menzionata, se non di passaggio, eppure c’è sempre, ombra che si pretende realtà, potenza cieca, inconsapevole e minacciosa, che avanza a grandi passi scomposti distruggendo quasi senza accorgersene le manifestazioni di una civiltà millenaria. Si potrebbe ovviamente obiettare a questa visione, argomentare, distinguere, ma non qui, non ora. Meglio per una volta abbandonarsi al piacere dei colori e delle parole, e arrendersi all’autore di questo splendido libro.


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