sabato 12 aprile 2008


Ogni ben di Buddha
(con la collaborazione di Maria Cristina Vanza)
Chi sono i grandi viaggiatori del nostro tempo? I turisti, certo: 850 milioni di arrivi internazionali nel 2006 non sono uno scherzo. Ma non sono i soli. Metterei nel conto anche i soldi. Infatti i (vostri?) grandi capitali si muovono incessantemente per il pianeta: finanziano una fabbrica in Cina, una piantagione in America Latina, dei pozzi petroliferi nel Medio Oriente. Vanno e vengono tra le Borse, anche quando sembrano tranquilli nei forzieri della banca. E poi ci sono i clandestini, che a milioni cercano disperatamente di risalire la corrente, di percorrere al contrario le stesse rotte dei turisti e del denaro, per arrivare nel ricco Occidente. Alcune regioni dove questi flussi si sfiorano, senza mescolarsi mai veramente, come il Mediterraneo o la frontiera tra Stati Uniti e Messico, sono divenuti dei luoghi simbolo del nostro tempo.
Un altro grande viaggiatore, al quale forse non si pensa subito, è poi senz’altro il cibo. I cuochi famosi si muovono vorticosamente per il mondo, le cucine si contaminano, si scambiano ricette e sapori nella fusion globalizzata. Il cibo si mescola con le altre forme di mobilità in modi curiosi: sospinti dalla passione imperante per l’enogastronomia, i turisti viaggiano anche per scoprire nuovi sapori, a volte per frequentare corsi di altre cucine. E la varietà, vera ricchezza del pianeta, per ora non manca. Per esempio l’80% della popolazione mondiale mangia circa duemila specie di insetti: in Papua Nuova Guinea si mangiano bruchi, in Messico cavallette, a Bali libellule, in America del Sud api coperte di cioccolato. Dopo tutto gli insetti sono artropodi come l’aragosta, il granchio e i gamberetti... Per inciso la pratica potrebbe anche essere salutare: gli insetti hanno meno calorie e meno colesterolo della carne (
www.eatbug.com; per acquisti on-line, tra cui formiche o un lecca lecca di scorpione www.edible.com). In ogni caso, dovunque siate, provate sempre i cibi locali, più o meno estremi: fa parte dello spirito del viaggio. E se avete dubbi igienici, non badate all’aspetto del cibo (facilmente adulterabile) ma a quello di chi ve lo vende: se il venditore è pulito, e se la gente del posto frequenta il locale, potete essere sicuri che il cibo è fresco e buono.
Il cibo è una parte importante anche nella vita delle diaspore, cioè dei gruppi che l’emigrazione ha separato dalla comunità cui appartengono. Chi è lontano sente spesso il bisogno di riaffermare la propria identità, e così le diaspore sono spesso molto fedeli alla tradizione in cucina; può capitare che un piatto tipico si gusti nella versione più “autentica” in una delle nostre città, piuttosto che nel Paese d’origine. E quanti sforzi, quanta fantasia per far arrivare gli ingredienti attraverso i percorsi più strani, o per adattare prodotti locali. Anche in Ticino ci sono ormai degli Asian market: per esempio vi si può trovare la puzzolente salsa di pesce fermentata thailandese (disponibile anche nella versione vegetariana importata dal Vietnam), ingrediente essenziale per la Som tam, un’insalata di papaya verde, o la minestra agrodolce Tom yum; ma anche le verdure fresche più strane coltivate a migliaia di chilometri e importate dai grossisti di Zurigo, che ogni settimana riforniscono la rete dei piccoli rivenditori locali.
Procurarsi il cibo tradizionale è particolarmente importante quando esso è parte fondamentale di una cerimonia religiosa: nel solo caso degli Ebrei, per esempio, impensabile celebrare la Festa delle capanne (Sukkot) senza un perfetto frutto di cedro, per ciascuno dei quali si pagano anche cento euro (i migliori vengono dalla Calabria), mentre il dattero è indispensabile per preparare l’haroset, una sorta di marmellata che non può mancare nella cena di Pasqua (Seder), e che rappresenta simbolicamente la malta usata dagli ebrei durante la schiavitù in Egitto per costruire le città del faraone.
Quando la comunità migrante acquista sicurezza di sè, si apre gradualmente all’esterno, e molte volte un ristorante che proponga le proprie ricette è il primo canale di comunicazione con la nuova Patria, il passo d’avvio nel lungo cammino dell’integrazione. I turisti vi ricercano i sapori scoperti in viaggio o forse, al contrario, molti viaggi iniziano proprio lì, nel ristorante etnico sotto casa. I primi, e per lungo tempo unici, furono i ristoranti francesi e spagnoli, per l’Europa, cinesi e indiani per l’Asia, ma oggi la cucina etnica offre numerose proposte molto diverse: eritrea, egiziana, turca, thailandese, coreana, brasiliana, messicana e via dicendo. E così, in una grande città, si potrebbe immaginare un giro del mondo di locale in locale, di portata in portata, senza allontanarsi da casa. Il fenomeno è tanto cresciuto, che sono disponibili alcune guide specializzate: “Pappamondo 2008. Guida ai ristoranti stranieri e ai negozi di alimentari etnici” (Terre di mezzo, 2007, € 10,00) è giunta ormai alla decima edizione, con volumi distinti per Milano, Roma e Genova. La sola edizione milanese segnala più di 450 ristoranti, di cui 85 nuovi. Il Touring Club Italiano propone invece un’edizione su scala nazionale, attenta anche alle minoranze linguistiche italiane (“Ristoranti etnici”, Il Viaggiatore-Touring Editore, 2007, € 10,00). In Canton Ticino ovviamente la scelta è più limitata, ma qualche ristorante si trova (sarebbe interessante poter disporre di un “Pappamondo Ticino”! C’è invece solo una sezione di una guida ormai datata: la “Guida multietnica del Canton Ticino e della Provincia di Como", Ikona edizioni, 2003).
A Torino con questo spirito – l’iniziativa si chiama “Turisti per casa” – negli ultimi due anni circa mille persone hanno partecipato ai percorsi ideati dal giornalista e gastronomade Vittorio Castellani, alias Chef Kumalé (
www.ilgastronomade.com), nel quartiere multietnico di Porta Palazzo, dove convivono 143 nazionalità diverse. Basta percorrere poche centinaia di metri e, girando l’angolo, si passa da un Paese e da un continente all’altro. I partecipanti hanno potuto così apprezzare i profumi di un tè con la menta sorseggiato in una caffetteria araba, l’aroma del pane egiziano appena sfornato, o il cous cous della gastronomia maghrebina all’ora di pranzo del venerdì. Sui banchi del mercato coperto il contadino cinese espone orgoglioso il suo raccolto di zucche serpente, fagiolini chilometrici e...foglie di crisantemi (si mangiano come se fossero spinaci, mentre con i i fiori essiccati si preparano tisane); e spesso sono prodotti coltivati negli orti urbani di periferia.
Per inciso, se le comunità migranti fanno ogni sforzo per mantenere un legame con i prodotti del loro territorio, anche noi dovremmo fare lo stesso. C’è anche molto, troppo cibo che viaggia, e non dovrebbe. Carne, verdure e frutta senza qualità particolari percorrono grandi distanze dalle zone di produzione a quelle di consumo solo perché il loro prezzo finale risulta più conveniente, magari solo di qualche centesimo, o per avere primizie insapori. Dal punto di vista sia del gusto, che sociale, culturale e ambientale, molto meglio seguire la “dieta delle cento miglia” (Hundred food miles diet,
http://100milediet.org) utilizzando di norma, e nella giusta stagione, i prodotti del territorio circostante. Vivere la nostra modernità richiede anche questo sapersi destreggiare tra locale e globale: e in questo caso capire che di patate o mele globetrotter possiamo fare tranquillamente a meno.

Etichette: