L’albergo è un luogo che serve a visitarne altri. Ma qualche volta è l’albergo stesso a diventare un’attrazione, per la bellezza architettonica, o per la sua lunga storia. Visitare un albergo storico può essere un affascinante esercizio di “turismo sperimentale”. Pensare a un albergo come a un grande contenitore di storie, quelle di tutte le persone che hanno soggiornato nelle sue stanze.
Il Grand Hotel di Rimini (www.grandhotelrimini.com) è il simbolo della più nota città balneare italiana, ma al tempo stesso non gli appartiene veramente. Come amava ripetere anni fa un suo proprietario, è un’immensa astronave bianca atterrata qui per sbaglio. È un presidio di eleganza e decoro formale in una regione rumorosa e popolare. Se ne sta - ma non è chiaro come - a fianco di parchi di divertimento, discoteche e stabilimenti balneari; i suoi camerieri – inappuntabili - scivolano leggeri a poche centinaia di metri dai bagnini in canottiera, padroni della spiaggia. Ma forse è più semplice ricordare che è il solo albergo a 5 stelle in una città che ne conta quasi 2.400.
Il Grand Hotel fu inaugurato cent’anni fa, nel luglio 1908, e il suo creatore fu l’architetto sudamericano Paolito Somazzi, attivissimo anche a Lugano, dove progettò (o ristrutturò) molti degli alberghi sorti tra XIX e XX secolo, tra cui l’Eden e lo Splendide. Da qui una certa d’aria di familiarità, che in un primo momento non riuscivo a spiegarmi. Quando ancora Rimini non era Rimini, e cercava la sua collocazione nel nascente turismo, il Grand Hotel si proponeva a una clientela mitteleuropea agiata e aristocratica, che cercava di attirare con feste e mondanità. Ma la proposta ebbe poco successo, e presto si affacciarono le prime difficoltà finanziarie, poi ricorrenti nella storia dell’albergo. Durante il fascismo arrivarono invece a Rimini i turisti delle classi medie e poi, negli anni del decollo economico nel secondo dopoguerra, tutti gli altri, a milioni. Qui gli Italiani impararono la nuova grammatica delle vacanze: abbronzatura, castelli di sabbia, bikini, canzoni, amori estivi...
Appena giunti davanti all’albergo, si ha una strana impressione di disorientamento, che si scopre poi essere letterale. Infatti Il Grand Hotel si nega sdegnoso alla vista del mare e dell’infinita spiaggia adriatica, ad eccezione di poche camere (per le quali si paga però un sovrapprezzo: il senso pratico dei riminesi non viene mai meno). La facciata in stile liberty guarda invece in direzione del Kursaal, lo stabilimento termale scomparso da tempo. Attraverso il parco si giunge alla famosa terrazza, e si entra nella hall immensa. Molto è rimasto com’era: decorazioni color oro e avorio, statue fin de siècle e grandi lampadari di cristallo. Salendo ai piani si attraversano corridoi dai piacevoli colori tenui, con pavimenti in marmo. Al centro di ciascun piano dell’edificio si trovano le suite più lussuose: la 315, la più ambita, è inarrivabile, ma a inizio stagione, come ora, quando i prezzi sono ancora abbordabili, una stanza in questa macchina del tempo diventa accessibile a (quasi) tutti, anche per meno di 200 euro a notte. Ne vale la pena: la “mia” 327 ha vecchi pavimenti in legno, un letto con le cortine rosso scuro, mobili d’epoca. La cultura dell’ospitalità riminese non poi ha eguali. Che curiosa razza di uomini è questa! Litigiosi e polemici tra loro sino allo sfinimento, quanto disponibili e cordiali coi visitatori.
Dopo vicende travagliate, e numerosi cambi di proprietà (è stato anche dell’immobiliarista Danilo Coppola), l’albergo è tornato ora in mani romagnole. In città è stata accolta con sollievo la notizia dell’acquisto da parte dell’imprenditore Antonio Batani, che l’ha pagato 65 milioni di euro. Nemmeno molto, ma bisogna considerare che la sfida che l’attende è enorme: l’albergo mostra in più parti i segni del tempo e ora, dopo anni di trascuratezza, dev’essere rimodernato, rispettando molti vincoli (dal 1994 è monumento nazionale), valorizzando le parti originali, ma al tempo stesso integrandole sapientemente con servizi moderni. Per misurare le difficoltà, basti pensare che il Ritz di Londra, che ha festeggiato anch’esso il secolo di vita nel 1906 (www.theritzlondon.com/about/history.asp), ha investito nell’impresa oltre 50 milioni di sterline, in 10 anni di lavori.
Nel nome di Fellini
Nella sua lunga storia l’albergo ha accolto, almeno per una notte, un elenco infinito di sovrani, statisti, uomini di cultura, scienziati, attori, cantanti... da Enrico Caruso a Sting, da Pedro Almodovar a Sharon Stone; e ancora George Bush e Gorbacev, Lady Diana e il Dalai Lama... Ma l’albergo ha legato il suo nome soprattutto al riminese più illustre, Federico Fellini, nel cui nome si svolgono ora tutte le celebrazioni. Negli anni Trenta un Fellini adolescente contemplava dal buio della strada le luci sfavillanti di una mondanità esotica e irraggiungibile: “Le sere d'estate il Grand Hotel diventava Istanbul, Bagdad, Hollywood. Sulle terrazze, protette da cortine di fittissime piante, forse si svolgevano feste alla Ziegfield. Si intravedevano nude schiene di donne che ci sembravano d'oro, allacciate da braccia maschili in smoking bianco, un venticello profumato ci portava a tratti musichette sincopate, languide da svenire ... Soltanto d'inverno, con l'umidità, il buio, la nebbia, riuscivamo a prendere possesso delle vaste terrazze del Grand Hotel fradice d'acqua”. Questa immagine del Grand Hotel, ricostruito a Cinecittà, è celebrata in “Amarcord” (1973): sono nella memoria collettiva la scena in cui la giovane bellezza del luogo si offre a un annoiato principe in una stanza dell’albergo con parole che diventeranno poi il suo soprannome: “Gradisca...”, mentre il fanfarone Biscein pretende di essersi introdotto di nascosto nell’albergo, e di aver passato la notte con le concubine di un emiro.
Sin dagli anni dell’Università Fellini visse quasi sempre a Roma, ma alloggiava abitualmente al Grand Hotel ogni volta che tornava a Rimini. E proprio seguendo le tracce di Fellini è possibile scoprire un volto inatteso di Rimini, quartieri dove il turista giunge di rado: una Rimini sorprendentemente bella e caratteristica, la città dei riminesi, che ne hanno costruito un’altra sul mare ad uso dei forestieri, forse perché non si accorgano di questa.
Dalla Marina ho risalito il Porto canale sul fiume Marecchia fino al ponte romano di Tiberio, oltre il quale s’intravede Borgo San Giuliano, coi suoi murales di soggetto felliniano. Piegando a sinistra, lungo il Corso di Augusto, s’incontra subito il Cinema Fulgor: in cambio dell’ingresso gratuito, il giovane Fellini disegnava ritratti di attori celebri per il proprietario. Poco oltre Piazza Cavour è il centro della città, dove fuori stagione ancora si trascina lenta la vita di provincia raccontata ne “I vitelloni”. Infine vicino al tempio Malatestiano e alla stazione c’è il Museo Fellini. Questo itinerario può concludersi al Cimitero comunale, dove Fellini è sepolto insieme a Giulietta Masina. Ma forse è meglio riprendere la via del mare, e tornare verso le spiagge, luogo delle prime scoperte del corpo femminile (“La città delle donne”). E ancora oltre, sino al mare aperto dove, ancora in “Amarcord”, passa il transatlantico “Rex”, con a bordo quel bel mondo internazionale per cui il Grand Hotel era stato invano costruito.
Il Grand Hotel di Rimini (www.grandhotelrimini.com) è il simbolo della più nota città balneare italiana, ma al tempo stesso non gli appartiene veramente. Come amava ripetere anni fa un suo proprietario, è un’immensa astronave bianca atterrata qui per sbaglio. È un presidio di eleganza e decoro formale in una regione rumorosa e popolare. Se ne sta - ma non è chiaro come - a fianco di parchi di divertimento, discoteche e stabilimenti balneari; i suoi camerieri – inappuntabili - scivolano leggeri a poche centinaia di metri dai bagnini in canottiera, padroni della spiaggia. Ma forse è più semplice ricordare che è il solo albergo a 5 stelle in una città che ne conta quasi 2.400.
Il Grand Hotel fu inaugurato cent’anni fa, nel luglio 1908, e il suo creatore fu l’architetto sudamericano Paolito Somazzi, attivissimo anche a Lugano, dove progettò (o ristrutturò) molti degli alberghi sorti tra XIX e XX secolo, tra cui l’Eden e lo Splendide. Da qui una certa d’aria di familiarità, che in un primo momento non riuscivo a spiegarmi. Quando ancora Rimini non era Rimini, e cercava la sua collocazione nel nascente turismo, il Grand Hotel si proponeva a una clientela mitteleuropea agiata e aristocratica, che cercava di attirare con feste e mondanità. Ma la proposta ebbe poco successo, e presto si affacciarono le prime difficoltà finanziarie, poi ricorrenti nella storia dell’albergo. Durante il fascismo arrivarono invece a Rimini i turisti delle classi medie e poi, negli anni del decollo economico nel secondo dopoguerra, tutti gli altri, a milioni. Qui gli Italiani impararono la nuova grammatica delle vacanze: abbronzatura, castelli di sabbia, bikini, canzoni, amori estivi...
Appena giunti davanti all’albergo, si ha una strana impressione di disorientamento, che si scopre poi essere letterale. Infatti Il Grand Hotel si nega sdegnoso alla vista del mare e dell’infinita spiaggia adriatica, ad eccezione di poche camere (per le quali si paga però un sovrapprezzo: il senso pratico dei riminesi non viene mai meno). La facciata in stile liberty guarda invece in direzione del Kursaal, lo stabilimento termale scomparso da tempo. Attraverso il parco si giunge alla famosa terrazza, e si entra nella hall immensa. Molto è rimasto com’era: decorazioni color oro e avorio, statue fin de siècle e grandi lampadari di cristallo. Salendo ai piani si attraversano corridoi dai piacevoli colori tenui, con pavimenti in marmo. Al centro di ciascun piano dell’edificio si trovano le suite più lussuose: la 315, la più ambita, è inarrivabile, ma a inizio stagione, come ora, quando i prezzi sono ancora abbordabili, una stanza in questa macchina del tempo diventa accessibile a (quasi) tutti, anche per meno di 200 euro a notte. Ne vale la pena: la “mia” 327 ha vecchi pavimenti in legno, un letto con le cortine rosso scuro, mobili d’epoca. La cultura dell’ospitalità riminese non poi ha eguali. Che curiosa razza di uomini è questa! Litigiosi e polemici tra loro sino allo sfinimento, quanto disponibili e cordiali coi visitatori.
Dopo vicende travagliate, e numerosi cambi di proprietà (è stato anche dell’immobiliarista Danilo Coppola), l’albergo è tornato ora in mani romagnole. In città è stata accolta con sollievo la notizia dell’acquisto da parte dell’imprenditore Antonio Batani, che l’ha pagato 65 milioni di euro. Nemmeno molto, ma bisogna considerare che la sfida che l’attende è enorme: l’albergo mostra in più parti i segni del tempo e ora, dopo anni di trascuratezza, dev’essere rimodernato, rispettando molti vincoli (dal 1994 è monumento nazionale), valorizzando le parti originali, ma al tempo stesso integrandole sapientemente con servizi moderni. Per misurare le difficoltà, basti pensare che il Ritz di Londra, che ha festeggiato anch’esso il secolo di vita nel 1906 (www.theritzlondon.com/about/history.asp), ha investito nell’impresa oltre 50 milioni di sterline, in 10 anni di lavori.
Nel nome di Fellini
Nella sua lunga storia l’albergo ha accolto, almeno per una notte, un elenco infinito di sovrani, statisti, uomini di cultura, scienziati, attori, cantanti... da Enrico Caruso a Sting, da Pedro Almodovar a Sharon Stone; e ancora George Bush e Gorbacev, Lady Diana e il Dalai Lama... Ma l’albergo ha legato il suo nome soprattutto al riminese più illustre, Federico Fellini, nel cui nome si svolgono ora tutte le celebrazioni. Negli anni Trenta un Fellini adolescente contemplava dal buio della strada le luci sfavillanti di una mondanità esotica e irraggiungibile: “Le sere d'estate il Grand Hotel diventava Istanbul, Bagdad, Hollywood. Sulle terrazze, protette da cortine di fittissime piante, forse si svolgevano feste alla Ziegfield. Si intravedevano nude schiene di donne che ci sembravano d'oro, allacciate da braccia maschili in smoking bianco, un venticello profumato ci portava a tratti musichette sincopate, languide da svenire ... Soltanto d'inverno, con l'umidità, il buio, la nebbia, riuscivamo a prendere possesso delle vaste terrazze del Grand Hotel fradice d'acqua”. Questa immagine del Grand Hotel, ricostruito a Cinecittà, è celebrata in “Amarcord” (1973): sono nella memoria collettiva la scena in cui la giovane bellezza del luogo si offre a un annoiato principe in una stanza dell’albergo con parole che diventeranno poi il suo soprannome: “Gradisca...”, mentre il fanfarone Biscein pretende di essersi introdotto di nascosto nell’albergo, e di aver passato la notte con le concubine di un emiro.
Sin dagli anni dell’Università Fellini visse quasi sempre a Roma, ma alloggiava abitualmente al Grand Hotel ogni volta che tornava a Rimini. E proprio seguendo le tracce di Fellini è possibile scoprire un volto inatteso di Rimini, quartieri dove il turista giunge di rado: una Rimini sorprendentemente bella e caratteristica, la città dei riminesi, che ne hanno costruito un’altra sul mare ad uso dei forestieri, forse perché non si accorgano di questa.
Dalla Marina ho risalito il Porto canale sul fiume Marecchia fino al ponte romano di Tiberio, oltre il quale s’intravede Borgo San Giuliano, coi suoi murales di soggetto felliniano. Piegando a sinistra, lungo il Corso di Augusto, s’incontra subito il Cinema Fulgor: in cambio dell’ingresso gratuito, il giovane Fellini disegnava ritratti di attori celebri per il proprietario. Poco oltre Piazza Cavour è il centro della città, dove fuori stagione ancora si trascina lenta la vita di provincia raccontata ne “I vitelloni”. Infine vicino al tempio Malatestiano e alla stazione c’è il Museo Fellini. Questo itinerario può concludersi al Cimitero comunale, dove Fellini è sepolto insieme a Giulietta Masina. Ma forse è meglio riprendere la via del mare, e tornare verso le spiagge, luogo delle prime scoperte del corpo femminile (“La città delle donne”). E ancora oltre, sino al mare aperto dove, ancora in “Amarcord”, passa il transatlantico “Rex”, con a bordo quel bel mondo internazionale per cui il Grand Hotel era stato invano costruito.
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