I manifesti turistici, per loro natura destinati a vita effimera, sono tuttavia ricercati da appassionati collezionisti, come Roberto Cavalli, che in “100 anni di manifesti ticinesi 1890-1990” ha raccolto quelli che riguardano il Canton Ticino. Il primo volume, dedicato ai manifesti turistici della linea ferroviaria del San Gottardo, del Ticino in generale e del Sopraceneri, è stato da poco pubblicato (Edizioni d’arte Jansonius, Lugano 2008, pp. 248, CHF 118); presto seguirà il secondo, dedicato invece al Sottoceneri e a Lugano (di cui anticipiamo qui un paio di esemplari). Nell’insieme Cavalli offre un prezioso lavoro di documentazione, e un primo tentativo d’interpretazione, che merita senz’altro di essere sviluppato.
I manifesti possono essere considerati da diversi punti di vista, ad esempio per il loro valore artistico. Com’è noto anche pittori famosi non disdegnarono questo mezzo d’espressione: Toulouse-Lautrec realizzò quelli per il Moulin Rouge di Parigi, in Italia si ricordano i lavori di Dudovich, in Svizzera di Giacometti. Dal mio punto di vista però è ancora più interessante riflettere sul modo in cui il nostro Cantone si è proposto nel tempo ai suoi potenziali visitatori, quali aspetti della propria identità ha selezionato e valorizzato. Il manifesto infatti è solo parzialmente libera espressione della creatività di un artista. Questi deve tener conto del committente, a cui sottopone diverse versioni, e dal quale attende l’approvazione finale. Il committente a sua volta – sia ente turistico, grande albergo, o società ferroviaria – cerca di interpretare e di assecondare i gusti e le aspettative dei potenziali turisti. Inoltre il manifesto non cerca di fotografare la realtà, di riprodurla oggettivamente. Per ottenere l’effetto promozionale che si propone, di norma l’autore candidamente omette, modifica, amplifica. La realtà oggettiva svanisce così in un gioco di specchi estremamente infedele, ma altrettanto affascinante.
Il manifesto turistico ticinese comincia a prendere piede dopo il 1882 quando, con l’apertura del Gottardo, i flussi turistici prendono una consistenza nuova. Ed ecco che i primi manifesti celebrano le comodità dei grandi alberghi moderni sorti in breve tempo sulle rive dei laghi, mentre si moltiplicano le immagini di treni che corrono veloci verso il Sud, diretti a Venezia, Firenze, Roma, Napoli. Ma questi manifesti sembrano anche suggerire che in fondo non serve spingersi così lontano, che il Sud e il Mediterraneo sono già qui: è infatti un Ticino solare e di lussureggiante vegetazione, ritratto nei toni del giallo, dell’arancione, del verde, dell’azzurro.
Questa immagine si completa negli anni Venti, l’età d’oro del manifesto turistico ticinese. Le tensioni internazionali e la crisi economica scoraggiano gli stranieri, e favoriscono lo sviluppo di quel rapporto privilegiato tra il Ticino e i turisti provenienti dagli altri Cantoni svizzeri, specie di lingua tedesca, che tutto sommato ancora oggi dura. In quegli anni una nuova generazione di artisti dotati porta a piena maturità il manifesto turistico. Il villaggio, specie se affacciato sul lago, diventa così il simbolo del mondo ticinese: uno scenario nel quale fanno la loro comparsa anche contadini spensierati, ritratti nei balli e cortei del giorno di festa, piuttosto che nel duro lavoro quotidiano. Un Ticino pittoresco e paternalistico di cui è simbolo la Festa delle camelie di Locarno (dal 1924) o la Festa della vendemmia a Lugano.
Negli anni Sessanta del secolo scorso il manifesto si trasforma ancora una volta con l’avvento della fotografia che peraltro, a mio avviso, non ha sempre saputo sorpassare in efficacia la pittura. Nell’immagine del Cantone s’affacciano anche temi identitari più sfumati e complessi, ispirati al “turismo culturale” (“Ticino, terra di artisti”). Oggi infine il manifesto nasce quasi sempre al computer, e si misura con numerose altre forme di comunicazione turistica, pur mantenendo una sua indiscussa, rudimentale efficacia.
Scorrendo il volume, anche velocemente, un’immagine s’impone all’attenzione per la sua presenza ricorrente: il campanile del paese. Un simbolo di identità religiosa e civile, di vita comunitaria, come nel manifesto di uno dei migliori illustratori, Luigi Rossi, che mi pare tra tutti il più emozionante nella sua semplicità: quell’aereo volo di rondini non si dimentica. Sono consapevole che anche qui è presente lo stereotipo e l’idealizzazione caratteristica del genere, e tuttavia questo manifesto non si esaurisce in tali aspetti; mi pare invece voglia suggerirci che la comunicazione turistica non è (o non dovrebbe essere) solo marketing, ma anche racconto di sé agli altri, condivisione di un’appartenenza, di un’identità difesa e mostrata con orgoglio.
I manifesti possono essere considerati da diversi punti di vista, ad esempio per il loro valore artistico. Com’è noto anche pittori famosi non disdegnarono questo mezzo d’espressione: Toulouse-Lautrec realizzò quelli per il Moulin Rouge di Parigi, in Italia si ricordano i lavori di Dudovich, in Svizzera di Giacometti. Dal mio punto di vista però è ancora più interessante riflettere sul modo in cui il nostro Cantone si è proposto nel tempo ai suoi potenziali visitatori, quali aspetti della propria identità ha selezionato e valorizzato. Il manifesto infatti è solo parzialmente libera espressione della creatività di un artista. Questi deve tener conto del committente, a cui sottopone diverse versioni, e dal quale attende l’approvazione finale. Il committente a sua volta – sia ente turistico, grande albergo, o società ferroviaria – cerca di interpretare e di assecondare i gusti e le aspettative dei potenziali turisti. Inoltre il manifesto non cerca di fotografare la realtà, di riprodurla oggettivamente. Per ottenere l’effetto promozionale che si propone, di norma l’autore candidamente omette, modifica, amplifica. La realtà oggettiva svanisce così in un gioco di specchi estremamente infedele, ma altrettanto affascinante.
Il manifesto turistico ticinese comincia a prendere piede dopo il 1882 quando, con l’apertura del Gottardo, i flussi turistici prendono una consistenza nuova. Ed ecco che i primi manifesti celebrano le comodità dei grandi alberghi moderni sorti in breve tempo sulle rive dei laghi, mentre si moltiplicano le immagini di treni che corrono veloci verso il Sud, diretti a Venezia, Firenze, Roma, Napoli. Ma questi manifesti sembrano anche suggerire che in fondo non serve spingersi così lontano, che il Sud e il Mediterraneo sono già qui: è infatti un Ticino solare e di lussureggiante vegetazione, ritratto nei toni del giallo, dell’arancione, del verde, dell’azzurro.
Questa immagine si completa negli anni Venti, l’età d’oro del manifesto turistico ticinese. Le tensioni internazionali e la crisi economica scoraggiano gli stranieri, e favoriscono lo sviluppo di quel rapporto privilegiato tra il Ticino e i turisti provenienti dagli altri Cantoni svizzeri, specie di lingua tedesca, che tutto sommato ancora oggi dura. In quegli anni una nuova generazione di artisti dotati porta a piena maturità il manifesto turistico. Il villaggio, specie se affacciato sul lago, diventa così il simbolo del mondo ticinese: uno scenario nel quale fanno la loro comparsa anche contadini spensierati, ritratti nei balli e cortei del giorno di festa, piuttosto che nel duro lavoro quotidiano. Un Ticino pittoresco e paternalistico di cui è simbolo la Festa delle camelie di Locarno (dal 1924) o la Festa della vendemmia a Lugano.
Negli anni Sessanta del secolo scorso il manifesto si trasforma ancora una volta con l’avvento della fotografia che peraltro, a mio avviso, non ha sempre saputo sorpassare in efficacia la pittura. Nell’immagine del Cantone s’affacciano anche temi identitari più sfumati e complessi, ispirati al “turismo culturale” (“Ticino, terra di artisti”). Oggi infine il manifesto nasce quasi sempre al computer, e si misura con numerose altre forme di comunicazione turistica, pur mantenendo una sua indiscussa, rudimentale efficacia.
Scorrendo il volume, anche velocemente, un’immagine s’impone all’attenzione per la sua presenza ricorrente: il campanile del paese. Un simbolo di identità religiosa e civile, di vita comunitaria, come nel manifesto di uno dei migliori illustratori, Luigi Rossi, che mi pare tra tutti il più emozionante nella sua semplicità: quell’aereo volo di rondini non si dimentica. Sono consapevole che anche qui è presente lo stereotipo e l’idealizzazione caratteristica del genere, e tuttavia questo manifesto non si esaurisce in tali aspetti; mi pare invece voglia suggerirci che la comunicazione turistica non è (o non dovrebbe essere) solo marketing, ma anche racconto di sé agli altri, condivisione di un’appartenenza, di un’identità difesa e mostrata con orgoglio.
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