mercoledì 10 ottobre 2007

Gap Year? Il termine suona esotico alle nostre latitudini, tanto che è difficilmente traducibile (“anno sabbatico” rende davvero poco l’idea,e fa piuttosto pensare ai tranquilli congedi di studio dei docenti universitari). Nel mondo anglosassone invece, dov’è un’istituzione ben consolidata, indica l’abitudine di compiere un lungo viaggio all’estero in alcuni momenti di passaggio della propria vita: alla fine delle superiori o dell’università, quando si cambia impiego ecc. Si fanno nuove esperienze, strani lavori, si perfezionano un paio di lingue, si scava più a fondo nelle proprie vocazioni, ci si diverte naturalmente. Anche dal punto di vista pratico, è assai meno complicato di quanto potremmo immaginare. E in ogni caso sono disponibili in lingua inglese decine di guide specializzate (Lonely Planet) e siti dedicati (www.gapyear.com).
All’inizio del 2005 un trentenne milanese, Alberto Di Stefano, laurea in Bocconi e un impiego nel mondo dorato della finanza, ha deciso di tentare quest’esperienza, e di fare il classico giro del mondo in barca a vela, da est a ovest, col favore degli alisei, attraverso tre oceani, cinque continenti e trenta nazioni. Imbarcatosi su una goletta, dopo solo tre mesi di viaggio ha però preferito scendere a terra, perché la vita a bordo era diventata impossibile. È ben noto del resto che in questi lunghi viaggi per mare è più difficile condividere a lungo con gli altri uno spazio ristretto, che non affrontare il mare grosso, e le avarie, che anzi cementano lo spirito di gruppo. È in quel momento, quando la sua impresa sembrava fallire poco dopo l’avvio, che Di Stefano ha scoperto la possibilità di continuare il suo viaggio con il “barcastop”, cioè sfruttando i passaggi in barca come un autostoppista farebbe con le automobili. Da questa esperienza è nato un libro decisamente interessante, seppure un po’ prolisso e disordinato, che è anche una guida per questi turisti di nuovo tipo. Nonostante i viaggi per mare abbiano fama d’essere costosi, in questo caso, come nel tradizionale autostop, si viaggia al risparmio (anche se può essere necessario un biglietto aereo per raggiungere il luogo del primo imbarco, o per tornare a casa). Trovare un passaggio gratuito (o condividendo le sole spese) su un’imbarcazione è infatti più facile di quanto si possa immaginare: basta mettere un annuncio nella bacheca di un club nautico (marina), o consultare un sito web specializzato (ad es.
www.findacrew.net). Di norma l’offerta supera la domanda; le barche che navigano per diporto sono infatti numerose, e due braccia in più a bordo fanno sempre comodo. Non occorre nemmeno essere marinai particolarmente abili: un medico, o meglio ancora un cuoco, capace di arrangiarsi con quel che offre la cambusa, sono altrettanto richiesti. Bisogna naturalmente parlare un poco d’inglese, avere un buon carattere, e la disponibilità a collaborare in tutte le incombenze della navigazione: ormeggi, pulizia, cura dell’imbarcazione, soprattutto i lunghi turni di guardia notturni. Finito il lavoro, vi sono comunque parecchie ore d’ozio per leggere, ascoltare musica, o semplicemente pensare al cospetto delle distese marine. La superstizione fa parte di quel mondo, e dunque a bordo non si fischia (chiama i venti e le tempeste), non ci si veste di verde, non si lava la bandiera nazionale, non si pronuncia la parola “coniglio” (chissà mai perché).
Il barcastop si può fare anche solo per qualche settimana, ma i comandanti in cerca d’equipaggio preferiscono di solito imbarchi più lunghi. Con sei mesi a disposizione si può già pensare ad un crociera atlantica. Più difficile trovare un imbarco nel calmo Mediterraneo, che si può navigare anche con un equipaggio minimo; più impegnativa, anche solo per le distanze, l’esperienza del Pacifico. In ogni caso il periodo migliore per trovare il primo imbarco è intorno a novembre, quando le partenze sono più numerose, dato che gli equipaggi amano passare le feste di fine anno ai Caraibi, per poi attraversare il Canale di Panama in primavera.
Di Stefano ha completato il suo originale viaggio per mare tornando a casa a bordo di un cargo portacontainer. A differenza del barcastop, che muove i primi passi, questa è una forma di viaggio ormai affermata. Infatti il mondo è percorso senza sosta da 40.000 navi cargo che garantiscono il 95% dei trasporti commerciali: mastodonti d’acciaio che possono raggiungere i 300 m di lunghezza, e navigare a più di 20 nodi. Le nuove, sofisticate tecnologie hanno reso superfluo gran parte dell’equipaggio, e le cabine libere vengono oggi affittate ai turisti, a prezzi anche piuttosto elevati, e con lunghe liste d’attesa, dato che la domanda è sostenuta almeno da un decennio (i primi pionieri sperimentarono questi viaggi negli anni Novanta: ad esempio Alex Roggero, “Australian Cargo”, Feltrinelli). Anche in questo caso, in un tempo di spostamenti sempre più veloci, la maggior attrattiva è rappresentata da lunghe ore di navigazione assolutamente vuote, scandite solo dai pasti, lontano dagli impegni e dal frastuono abituale, durante le quali tuttavia la voce più profonda della nostra anima ha tempo e modo di farsi sentire.
Barcastop, navi cargo... sono solo esempi di come basti impiegare la fantasia, e cambiare le regole del gioco, per aprire prospettive completamente nuove ai nostri viaggi, rendendoli più interessanti e indipendenti. Non si tratta di stabilire gerarchie, o coltivare snobismi e sensi di superiorità: una tranquilla crociera o il barcastop? È in larga parte una questione di gusti. L’importante è riflettere sul modo di viaggiare più adatto a noi, e non solo sulle possibili destinazioni. È soprattutto questo atteggiamento, in fondo, che distingue i “viaggiatori d’occidente”.
Alberto Di Stefano, «Il giro del mondo in barcastop», Feltrinelli, Milano 2007, pp.384, € 16,50

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