mercoledì 23 luglio 2008


Timbuctu è una città che quasi tutti conoscono, ma che pochi saprebbero collocare su una carta geografica (per inciso è in Mali). Qualcuno pensa addirittura che non esista. Più che una meta reale, Timbuctu è un altrove mitico e irraggiungibile: è lì che il perfido maggiordomo Edgar de “Gli Aristogatti” cerca di spedire i tre gattini Minou, Matisse e Bizet, rinchiusi in una cassa, finendoci invece lui. Un’immagine che si è formata nel XIX secolo, quando le società geografiche promettevano premi favolosi a chi avesse raggiunto per primo la “perla del deserto” (e fu René Caillié, nel 1828, a riuscirvi). In realtà Timbuctu era stata per secoli una ricca città commerciale, favorita dalla posizione strategica lungo il fiume Niger, sul confine tra deserto e savana: e dunque tutt’altro che alla fine del mondo, ma piuttosto al centro di un altro mondo. Questo affascinante gioco di specchi è raccontato nell’ultimo, riuscito libro dell’antropologo Marco Aime, frutto di un interesse di lunga data e di pazienti ricerche sul campo (“Timbuctu”, Bollati Boringhieri, pp.200, € 10,00).

Shangri-La è l’esatto opposto di Timbuctu: è una città immaginaria, ma molti credono (e vogliono) che esista davvero. Shangri-La è infatti il nome di una pacifica e raffinata comunità che vive in una valle alle pendici dell’Himalaya, dedita a preservare e tramandare le più alte creazioni intellettuali e artistiche di ogni epoca e civiltà. È stata raccontata in un romanzo di successo, “Orizzonte perduto”, pubblicato da James Hilton nel 1933. Diverse suggestioni si combinarono nella mente di Hilton per creare Shangri-La, ma nessuna indicazione nel romanzo è abbastanza precisa per identificare un luogo particolare. Il giornalista americano Lawrence Osborne ha ripercorso i luoghi che potrebbero aver ispirato Hilton (“Shangri-La”, Adelphi, pp.56, € 5,50), ma ha scoperto invece che l’interessato governo della Cina è deciso a sfruttare spregiudicatamente questa opportunità. E così nel 2001 la città di Zhongdian, al confine col Tibet, è stata ribattezzata appunto Shangri-La, senza che nessun elemento giustifichi la scelta. Ma soprattutto qui nulla ricorda la pacifica utopia intravista o sognata da Hilton. L’abitato è squallido e caotico, e infiniti cantieri costruiscono alberghi che paiono prigioni. Zhongdian/Shangri-La richiama già tre milioni di visitatori l’anno, ma sono solo le avanguardie dei molti cinesi che escono progressivamente dalle ristrettezze, e vogliono viaggiare e divertirsi alla buona, senza troppe raffinate distinzioni.

A volte, durante un viaggio, svaniscono improvvisamente tutte le coordinate geografiche, temporali e psicologiche, e ci troviamo in un luogo che non avremmo mai pensato di visitare: Nowhere. A questo tema Lonely Planet ha dedicato un’antologia, curata da Don George (“Dove sono finito? Storie inaspettate da luoghi inaspettati”, EDT, pp.242, € 14,50). Nowhere può essere ovunque, perché è al tempo stesso un luogo, una situazione e uno stato d’animo di disorientamento. Per esempio Conor Grennan viaggia in bicicletta in Sri Lanka, senza sapere che è nel pieno della stagione delle piogge. Ovviamente si perde, e nel mezzo di un diluvio irrompe a tutta velocità dentro un negozio sperduto nella foresta, dove l’unico cibo disponibile per il viaggiatore affamato sono ... delle torte di compleanno al cioccolato, buonissime. In tutti i casi, superato lo smarrimento iniziale, si stabiliscono pian piano i nuovi punti di riferimento, e si finisce spesso per scoprire che il posto dove siamo capitati, contro ogni probabilità, ha qualcosa da dirci. In fondo quello che per noi è Nowhere, per altri è un luogo familiare. Nowhere insomma non è alla fine di una strada chiusa, semmai è un incrocio tra strade diverse: rivela connessioni, soluzioni, nuove prospettive, altre vite.

Per concludere le vostre lezioni di spaesamento potete affidarvi a Franco Arminio (“Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia”, Laterza, pp.193, € 10,00). Arminio si è autoproclamato primo “paesologo” italiano, e da anni spende le giornate visitando piccoli paesi, soprattutto della sua Campania. Va a vedere la piazza, il municipio, la scuola, il cimitero, le macchine che passano. Parla con il sindaco, il vigile, il geometra comunale, la barista, i vecchi, i nullafacenti, i matti. Qualche volta compera una cartolina. Poi torna a casa e scrive. Questo libro è un viaggio in paesi che si sono arresi: paesi spopolati, sfiniti e ammalati di desolazione, di cui la Campania (ma non solo) è generosa. Paesi senza turismo, senza negozi di prodotti tipici, o musei della civiltà contadina: paesi e basta. Arminio ha una voce originale, scrive benissimo, e il suo potrebbe anche essere il libro di viaggio più interessante di quest’anno. Ma è solo luglio, tutto può ancora accadere.

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TURISMO SCARPONE
Con gli alpini sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale

I luoghi dove si svolsero le grandi battaglie che hanno cambiato il corso della storia – Canne, Hastings, Waterloo, Verdun, El Alamein... - hanno sempre esercitato una forte attrazione, e hanno prodotto un turismo particolare (“Battlefield Tourism”). L’anniversario della fine della Grande guerra può dunque essere l’occasione per un viaggio nel più importante evento del XX secolo.

La Prima guerra mondiale si concluse quando gli Italiani, dopo quattro anni di lotte durissime, riuscirono ad aprirsi la via di Vienna. Ottant’anni dopo (1918-2008) l’anniversario di quell’impresa non sembra aver destato molto interesse. Forse perché gli Italiani a Vienna c’erano già, questa volta, impegnati nel Campionato europeo di calcio, e il problema, semmai, era di non tornare a casa troppo presto (come puntualmente è avvenuto). Dell’anniversario si sono ricordati invece benissimo gli alpini, che nella Grande guerra ebbero un ruolo principale, dal momento che si combatté in regioni di montagna, e dunque di leva alpina. Per l’occasione l’Associazione Nazionale Alpini - ANA (380.000 soci, 81 sezioni in Italia e 31 all’estero) ha presentato i risultati di un lungo e impegnativo lavoro di recupero e valorizzazione dei campi di battaglia, le cui condizioni erano ormai divenute critiche. Infatti, subito dopo la fine delle ostilità, questi furono abbandonati a sé stessi, salvo occasionali celebrazioni. La povera gente del luogo asportò tutto quello che poteva essere riutilizzato (furono detti appunto “recuperanti”), e a poco a poco le opere militari si deteriorarono per l’azione corrosiva del tempo e delle stagioni. Da alcuni decenni tuttavia le diverse sezioni dell’ANA si sono messe all’opera per arrestare il degrado, e ciascuna sezione si è occupata della sua valle e della sua montagna, con inevitabile varietà di criteri, ma con un ottimo risultato complessivo. Migliaia di volontari hanno ripulito, sistemato e reso praticabili al pubblico trincee, camminamenti, cittadelle militari, casematte, ricoveri, gallerie, cimiteri di guerra, in qualche caso vivendo nelle tende in quota, come al tempo del servizio militare. Anche i nemici di un tempo, i Kaiserjäger austriaci, hanno collaborato. Una legge dello Stato, e vari finanziamenti, anche della Comunità europea, hanno poi permesso di completare il percorso avviato spontaneamente. Quando il lavoro volgeva ormai al termine ci si è resi conto, quasi con sorpresa, che tutti questi interventi si componevano in un disegno unitario, in un unico, immenso museo a cielo aperto che va dall’Ossola alla Carnia, e lega insieme le montagne di Lombardia, Trentino, Veneto e Friuli. Nel frattempo l’escursionismo storico è molto cresciuto e, per rispondere a questa domanda, il volume che avrebbe dovuto censire i diversi interventi è stato integrato con informazioni di carattere turistico: itinerari, musei, manifestazioni ecc. Tanto valeva forse, a questo punto, realizzare due diversi progetti editoriali, ma anche così questo libro offre molti spunti interessanti per il turista.
Una prima curiosità: i Ticinesi hanno alle porte di casa la parte meglio
conservata del fronte, ovvero le gigantesche fortificazioni della Linea Cadorna, costruite lungo il confine italo-svizzero nel timore che il nemico violasse la neutralità elvetica, come già aveva fatto con quella del Belgio. La linea si è
conservata quasi intatta, con i suoi 70 km di trincee e i 500 km di strade militari o mulattiere, come sospesa nel tempo, in attesa di un nemico che non arrivò mai. E il forte di Montecchio Nord, nei pressi di Colico (Lecco), è l’unico ancora armato con i cannoni d’epoca.
Spostandosi verso Est, ogni luogo ricanta l’epica vicenda in forme sempre
diverse. Sull’Adamello i nemici più pericolosi erano la montagna e l’inverno, e ogni azione militare si trasformava in un’impresa alpinistica. Sul Passo dello Stelvio è invece possibile visitare il cimitero militare più alto d’Europa. Molti dei luoghi più suggestivi sono naturalmente in Trentino, dove il fronte s’incuneava
profondamente in territorio italiano, e dove l’Austria-Ungheria nel 1916 sferrò una pericolosa offensiva, la cosiddetta “Spedizione punitiva” (Strafexpedition), fallita d’un soffio. A Trento è d’obbligo una visita al Museo nazionale storico degli alpini, sulla Rocca del Doss. Ma il luogo della memoria più sentito dagli alpini è la “Colonna mozza” sull’Ortigara. Su questa montagna, che gli Austriaci avevano fortificato sino a renderla quasi imprendibile, l’ostinazione del generale Luca Montuori sacrificò in vani assalti 16.000 soldati di 22 battaglioni. Il 19 giugno 1917 gli alpini riuscirono ugualmente a conquistare la cima dell’Ortigara, coprendo le pendici coi loro morti, ma solo per esserne ricacciati da forze austriache superiori. In Trentino la guerra ha sfiorato anche i luoghi più belli, come le Dolomiti, che furono testimoni di spettacolari combattimenti sulle vette, guerre di mine e contromine gigantesche (per esempio sul Col di Lana), e soluzioni organizzative geniali come la città nel ghiaccio austriaca sulla Marmolada. Il percorso più interessante è sulla Cengia Martini, vicino a Cortina d’Ampezzo, dove la prima domenica di settembre si organizza un’accurata rievocazione storica con figuranti in uniformi d’epoca.
Assai meno visibili sono invece le tracce della guerra sull’altopiano del Carso: il terreno friabile ha inghiottito tutto, e ha fatto sprofondare ogni segno delle passate tragedie. Qui, ai piedi delle Alpi Giulie, nelle sanguinose battaglie dell’Isonzo, 300.000 soldati persero la vita per contendersi qualche chilometro di terreno privo di valore strategico. Come scrisse un soldato austriaco nel suo diario: “Nei giorni successivi alla battaglia gli oggetti che appartennero ai morti vengono raccolti presso la Brigata. Mucchi di portafogli marroni, rossi, neri, sdruciti, macchiati di sangue, libretti paga, piastrine di riconoscimento. Molte lettere, italiane, austriache... Cara mamma, cara moglie, cari figli... fotografie di bambini, bambini italiani e austriaci, macchiate, sporche, insanguinate”. Poco oltre, sulle pendici del San Michele, altri centomila morti. Giunti al confine orientale, il viaggio sarebbe concluso, ma l’ultima tappa è ovviamente a ritroso, sul Piave e sul Monte Grappa, dove gli Italiani ripiegarono dopo la disastrosa sconfitta di Caporetto (ottobre 1917) per allestire una disperata difesa, che preparò la successiva controffensiva e la vittoria finale.
Solo visitando di persona i luoghi si può comprendere pienamente il significato e la portata di questi eventi. Meglio ancora se sarete guidati sui sentieri della guerra dagli stessi alpini: a questo fine, prima della partenza, contattate le sezioni locali (anche attraverso www.ana.it). L’abolizione dell’esercito di leva ha molto ridotto la consistenza delle truppe alpine, ormai prive anche dell’inseparabile mulo (in “pensione” dal 1993), ma lo spirito resta quello di un tempo: un forte senso di solidarietà (gli alpini sono regolarmente impegnati nella Protezione civile), semplicità, concretezza, poche parole e molti fatti, come in questo caso. Davvero Italiani anomali, ma avercene.

“Con gli Alpini sui sentieri della storia. I luoghi della Grande Guerra”, Mursia,
Milano 2008, pp.328, € 20,00

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A volte, durante un viaggio, svaniscono improvvisamente tutti i riferimenti abituali, e ci troviamo, confusi e spaesati, in un luogo che non avremmo mai pensato di visitare. Benvenuti a Nowhere...

Il viaggio si distingue da un’esperienza turistica soprattutto per lo spazio lasciato all’imprevisto. Nel viaggio si segue un programma di massima, si mantengono aperte a lungo diverse possibilità, si compiono deviazioni, si corre il rischio di qualche disavventura. Nel turismo invece il programma è più vincolante, e anche se si proclama “turismo d’avventura”, resta sempre un’esperienza protetta, sicura, dove l’imprevisto è considerato un sinonimo di errore, qualcosa che non deve succedere. Turismo insomma è sapere dove si è. Per questo il turismo può produrre semmai i tanto vituperati “non luoghi”, secondo la fortunata espressione coniata dal sociologo Marc Augé, ovvero luoghi puramente funzionali, anonimi, senza storia e senza identità, come i grandi aereoporti internazionali, o i villaggi vacanza. Solo in viaggio possiamo invece trovarci d’improvviso a Nowhere. Nowhere può essere ovunque, è al tempo stesso un luogo, una situazione e uno stato d’animo di disorientamento.
Nowhere prende forma davanti a noi quando scopriamo che non siamo dove credevamo di essere, quando perdiamo tutte le coordinate geografiche, temporali e psicologiche e ci guardiamo attorno perplessi: “Cosa ci faccio qui?” A questo tema Lonely Planet/EDT ha dedicato un’antologia – “Tales from Nowhere” è appunto il titolo originale - che raccoglie i racconti di trentuno famosi scrittori di viaggio, tra cui Rolf Potts, Pico Iyer, Danny Wallace e altri.Anche i luoghi sono i più vari, vicini o lontani, familiari o esotici, in tutti i continenti. A dire il vero non tutti i racconti sembrano rispettare esattamente il tema assegnato, ma forse era inevitabile, considerato l’argomento: si sarà perso anche il curatore, dentro la sua antologia... Inoltre, come sempre accade in libri di questo genere, i racconti sono disuguali per qualità, ma alcuni sonodavvero interessanti.
Per esempio Don Meredith, durante un viaggio in Kenia, incontra un amico meccanico, e si lascia convincere a seguirlo sul suo carro attrezzi fino a un posto chiamato Ngobit, dove deve riparare un minibus guasto. Mentre attende che l’amico finisca il suo lavoro in questo piccolo villaggio africano, di cui ignorava l’esistenza sino a poche ore prima, Don familiarizza con gli abitanti, e si ritrova a bere birra calda e a discutere con loro se Shakespeare sia mai esistito. Un’avventura simile accade a Karla Zimmerman, quando l’autobus su cui viaggia ha un incidente in una remota zona collinare del Vietnam, e si trova coinvolta nella vita cordiale di un piccolo agglomerato di case senza negozi né telefono, che sorge a una curva qualunque della strada: un luogo che sarebbe stato soltanto una fuggevole impressione dal finestrino. Conor Grennan invece viaggia in bicicletta in Sri Lanka, senza sapere che è nel pieno della stagione delle piogge. Oltretutto si perde, e nel mezzo di un diluvio irrompe a tutta velocità dentro un negozio sperduto nella foresta, dove l’unico cibo disponibile sono... delle torte di compleanno al cioccolato, ma così buone da non poterci credere: le torte più buone di tutto lo Sri Lanka. Infine Judy Tierney, che viaggia con una rigida tabella di marcia, rimane bloccata in un’improbabile locanda in una località di passaggio, a Chitimba, in Malawi. Mentre attende inutilmente un mezzo di trasporto che non arriverà mai, impara il significato profondo delle parole “poli, poli” (nella lingua locale “niente fretta, niente fretta”): la sola massima indispensabile in un continente dove con la fretta non si va da nessuna parte, e dove niente marcia secondo un orario prefissato.
Sono storie ed esperienze diverse, a volte tristi e tragiche, a volte sorprendenti e gioiose. In tutti i casi, superato lo smarrimento iniziale, si stabiliscono pian piano i nuovi punti di riferimento, e si finisce spesso per scoprire che il posto dove siamo capitati, contro ogni probabilità, ha qualcosa da dirci. Nowhere non è alla fine di una strada chiusa, semmai è un incrocio tra strade diverse: rivela connessioni, soluzioni, nuove prospettive, altre vite. Vite che, chissà, avrebbero potuto essere anche le nostre, se solo tanto tempo fa avessimo detto altre parole, per esempio sì invece di no, e fatto altre scelte. In fondo
quello che per noi è Nowhere, per altri è un luogo familiare, quotidiano, la loro casa. Per un momento proviamo così l’esperienza di essere il pezzo di un altro puzzle, diverso da quello cui abitualmente apparteniamo. Nowhere insegna che il mondo è pieno di sorprese, se sappiamo abbandonarci ad esso, e se sappiamo coltivare le qualità necessarie per viverci pienamente: umiltà, curiosità, coraggio, senso dell’umorismo, tolleranza, comprensione, compassione.
Nowhere è anche intorno a noi, ma spesso non ce ne accorgiamo, perché per scoprirlo dobbiamo imparare a guardare con occhi diversi. È il filo conduttore del racconto più sorprendente, quello di Jason Elliot. Sulla via del ritorno dal Medio Oriente, Jason accetta l’invito di un amico, e si ferma in una grande capitale dove mondo arabo e africano s’incontrano. Si dirige verso il quartiere dove vive l’amico, con un crescente senso di disagio: è una zona dove la polizia non si azzarda a entrare, e gli abitanti se ne vantano. Qui nessuno parla inglese, si vedono uomini col turbante e donne velate. Da vecchi edifici in mattoni si affacciano negozi con insegne in caratteri arabi, dai quali si
sprigionano odori di kebab e di tutte le altre cucine d’oriente. Quando si ferma a comprare della carne, il macellaio musulmano gli parla di giovani partiti per una guerra lontana e impopolare, di attentati suicidi in centro, di incertezza politica e di crisi economica. Finalmente, con passo sempre più affrettato, Jason raggiunge la casa dell’amico, dove finalmente può rasserenarsi tra volti familiari, si affaccia alla finestra e vede all’orizzonte...il Big Ben.

Don George (curatore), “Dove sono finito? Storie inaspettate da luoghi inaspettati”, EDT, Torino 2008, pp.242, € 14,50

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domenica 20 luglio 2008


L’albergo è un luogo che serve a visitarne altri. Ma qualche volta è l’albergo stesso a diventare un’attrazione, per la bellezza architettonica, o per la sua lunga storia. Visitare un albergo storico può essere un affascinante esercizio di “turismo sperimentale”. Pensare a un albergo come a un grande contenitore di storie, quelle di tutte le persone che hanno soggiornato nelle sue stanze.

Il Grand Hotel di Rimini (www.grandhotelrimini.com) è il simbolo della più nota città balneare italiana, ma al tempo stesso non gli appartiene veramente. Come amava ripetere anni fa un suo proprietario, è un’immensa astronave bianca atterrata qui per sbaglio. È un presidio di eleganza e decoro formale in una regione rumorosa e popolare. Se ne sta - ma non è chiaro come - a fianco di parchi di divertimento, discoteche e stabilimenti balneari; i suoi camerieri – inappuntabili - scivolano leggeri a poche centinaia di metri dai bagnini in canottiera, padroni della spiaggia. Ma forse è più semplice ricordare che è il solo albergo a 5 stelle in una città che ne conta quasi 2.400.
Il Grand Hotel fu inaugurato cent’anni fa, nel luglio 1908, e il suo creatore fu l’architetto sudamericano Paolito Somazzi, attivissimo anche a Lugano, dove progettò (o ristrutturò) molti degli alberghi sorti tra XIX e XX secolo, tra cui l’Eden e lo Splendide. Da qui una certa d’aria di familiarità, che in un primo momento non riuscivo a spiegarmi. Quando ancora Rimini non era Rimini, e cercava la sua collocazione nel nascente turismo, il Grand Hotel si proponeva a una clientela mitteleuropea agiata e aristocratica, che cercava di attirare con feste e mondanità. Ma la proposta ebbe poco successo, e presto si affacciarono le prime difficoltà finanziarie, poi ricorrenti nella storia dell’albergo. Durante il fascismo arrivarono invece a Rimini i turisti delle classi medie e poi, negli anni del decollo economico nel secondo dopoguerra, tutti gli altri, a milioni. Qui gli Italiani impararono la nuova grammatica delle vacanze: abbronzatura, castelli di sabbia, bikini, canzoni, amori estivi...
Appena giunti davanti all’albergo, si ha una strana impressione di disorientamento, che si scopre poi essere letterale. Infatti Il Grand Hotel si nega sdegnoso alla vista del mare e dell’infinita spiaggia adriatica, ad eccezione di poche camere (per le quali si paga però un sovrapprezzo: il senso pratico dei riminesi non viene mai meno). La facciata in stile liberty guarda invece in direzione del Kursaal, lo stabilimento termale scomparso da tempo. Attraverso il parco si giunge alla famosa terrazza, e si entra nella hall immensa. Molto è rimasto com’era: decorazioni color oro e avorio, statue fin de siècle e grandi lampadari di cristallo. Salendo ai piani si attraversano corridoi dai piacevoli colori tenui, con pavimenti in marmo. Al centro di ciascun piano dell’edificio si trovano le suite più lussuose: la 315, la più ambita, è inarrivabile, ma a inizio stagione, come ora, quando i prezzi sono ancora abbordabili, una stanza in questa macchina del tempo diventa accessibile a (quasi) tutti, anche per meno di 200 euro a notte. Ne vale la pena: la “mia” 327 ha vecchi pavimenti in legno, un letto con le cortine rosso scuro, mobili d’epoca. La cultura dell’ospitalità riminese non poi ha eguali. Che curiosa razza di uomini è questa! Litigiosi e polemici tra loro sino allo sfinimento, quanto disponibili e cordiali coi visitatori.
Dopo vicende travagliate, e numerosi cambi di proprietà (è stato anche dell’immobiliarista Danilo Coppola), l’albergo è tornato ora in mani romagnole. In città è stata accolta con sollievo la notizia dell’acquisto da parte dell’imprenditore Antonio Batani, che l’ha pagato 65 milioni di euro. Nemmeno molto, ma bisogna considerare che la sfida che l’attende è enorme: l’albergo mostra in più parti i segni del tempo e ora, dopo anni di trascuratezza, dev’essere rimodernato, rispettando molti vincoli (dal 1994 è monumento nazionale), valorizzando le parti originali, ma al tempo stesso integrandole sapientemente con servizi moderni. Per misurare le difficoltà, basti pensare che il Ritz di Londra, che ha festeggiato anch’esso il secolo di vita nel 1906 (www.theritzlondon.com/about/history.asp), ha investito nell’impresa oltre 50 milioni di sterline, in 10 anni di lavori.

Nel nome di Fellini
Nella sua lunga storia l’albergo ha accolto, almeno per una notte, un elenco infinito di sovrani, statisti, uomini di cultura, scienziati, attori, cantanti... da Enrico Caruso a Sting, da Pedro Almodovar a Sharon Stone; e ancora George Bush e Gorbacev, Lady Diana e il Dalai Lama... Ma l’albergo ha legato il suo nome soprattutto al riminese più illustre, Federico Fellini, nel cui nome si svolgono ora tutte le celebrazioni. Negli anni Trenta un Fellini adolescente contemplava dal buio della strada le luci sfavillanti di una mondanità esotica e irraggiungibile: “Le sere d'estate il Grand Hotel diventava Istanbul, Bagdad, Hollywood. Sulle terrazze, protette da cortine di fittissime piante, forse si svolgevano feste alla Ziegfield. Si intravedevano nude schiene di donne che ci sembravano d'oro, allacciate da braccia maschili in smoking bianco, un venticello profumato ci portava a tratti musichette sincopate, languide da svenire ... Soltanto d'inverno, con l'umidità, il buio, la nebbia, riuscivamo a prendere possesso delle vaste terrazze del Grand Hotel fradice d'acqua”. Questa immagine del Grand Hotel, ricostruito a Cinecittà, è celebrata in “Amarcord” (1973): sono nella memoria collettiva la scena in cui la giovane bellezza del luogo si offre a un annoiato principe in una stanza dell’albergo con parole che diventeranno poi il suo soprannome: “Gradisca...”, mentre il fanfarone Biscein pretende di essersi introdotto di nascosto nell’albergo, e di aver passato la notte con le concubine di un emiro.
Sin dagli anni dell’Università Fellini visse quasi sempre a Roma, ma alloggiava abitualmente al Grand Hotel ogni volta che tornava a Rimini. E proprio seguendo le tracce di Fellini è possibile scoprire un volto inatteso di Rimini, quartieri dove il turista giunge di rado: una Rimini sorprendentemente bella e caratteristica, la città dei riminesi, che ne hanno costruito un’altra sul mare ad uso dei forestieri, forse perché non si accorgano di questa.
Dalla Marina ho risalito il Porto canale sul fiume Marecchia fino al ponte romano di Tiberio, oltre il quale s’intravede Borgo San Giuliano, coi suoi murales di soggetto felliniano. Piegando a sinistra, lungo il Corso di Augusto, s’incontra subito il Cinema Fulgor: in cambio dell’ingresso gratuito, il giovane Fellini disegnava ritratti di attori celebri per il proprietario. Poco oltre Piazza Cavour è il centro della città, dove fuori stagione ancora si trascina lenta la vita di provincia raccontata ne “I vitelloni”. Infine vicino al tempio Malatestiano e alla stazione c’è il Museo Fellini. Questo itinerario può concludersi al Cimitero comunale, dove Fellini è sepolto insieme a Giulietta Masina. Ma forse è meglio riprendere la via del mare, e tornare verso le spiagge, luogo delle prime scoperte del corpo femminile (“La città delle donne”). E ancora oltre, sino al mare aperto dove, ancora in “Amarcord”, passa il transatlantico “Rex”, con a bordo quel bel mondo internazionale per cui il Grand Hotel era stato invano costruito.

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Qualche settimana fa abbiamo parlato di Timbuctu, la città del Mali che molti pensano non esista nella realtà. Shangri-La è il suo opposto: è una città immaginaria, ma molti credono che esista davvero; tra questi, l’interessato governo della Cina.

Shangri-La è il nome della comunità raccontata nel romanzo “Orizzonte perduto” (Sellerio), pubblicato da James Hilton nel 1933. La trama racconta di quattro visitatori occidentali che, in seguito a un incidente aereo, arrivano in una valle alle pendici dell’Himalaya: “Era uno spettacolo strano, e quasi incredibile. Un gruppo di edifici variamente colorati stava saldamente sul fianco del monte ... con la grazia di petali sparsi su una rupe rocciosa.” Qui un grande monastero accoglie una società sobria, armoniosa e pacifica. Gli abitanti di Shangri-La, provenienti da diversi Paesi, hanno bandito spontaneamente tutti i vizi che affliggono gli uomini. Il loro tempo è interamente dedicato a preservare e tramandare le più alte creazioni intellettuali e artistiche di ogni epoca e civiltà - dall’artigianato cinese a Mozart - nella convinzione che un’epoca di barbarie stia per abbattersi sul mondo: uno stato d’animo comprensibile se pensiamo che Hilton scriveva quando fascismo e stalinismo dominavano la scena politica, e che proprio nell’anno di pubblicazione del romanzo i nazisti presero il potere in Germania. Il loro sguardo peraltro si volgeva nella stessa direzione, a Oriente: nel 1938-’39 infatti, quando ormai era prossima la Seconda guerra mondiale, il capo delle SS Heinrich Himmler inviò una spedizione di SS sull’Himalaya per una stravagante missione scientifica: sul tetto del mondo gli scienziati tedeschi avrebbero dovuto trovare la testimonianza delle origini della “razza ariana” (Christopher Hale, “La crociata di Himmler. La spedizione nazista in Tibet nel 1938”, Garzanti).
Contro ogni aspettativa dell’autore, e nonostante il giudizio non entusiasta dei critici, il romanzo di Hilton ebbe un grande successo di pubblico. Fu il primo libro tascabile (pocket book) venduto negli Stati Uniti, nel 1937 Frank Capra ne ricavò un film premiato con due Oscar, e il presidente Franklin Delano Roosevelt volle chiamare Shangri-La la sua residenza di campagna (oggi più nota come Camp David). Negli anni seguenti numerosi sognatori, avventurieri ed esploratori cercarono Shangri-La in diverse regioni dell’Asia, e alcune località in varie parti del mondo si sono attribuite quel nome. Ma dov’è la vera Shangri-La?

Alla ricerca di Shangri-La
Diverse suggestioni si combinarono nella mente di Hilton per creare Shangri-La, ma nessuna indicazione nel volume è abbastanza precisa per identificare un luogo particolare. Probabilmente Hilton s’ispirò a un altro curioso personaggio – l’ennesimo in questa vicenda! - il botanico Joseph Rock. Nel 1921 Rock si era recato nella Cina Sud-occidentale per conto del Ministero dell’agricoltura americano, con il compito assai concreto di trovare una specie di castagno resistente ai parassiti. Colto dalla passione per l’etnografia e l’Oriente era invece rimasto nello Yunnan, e si era dedicato interamente allo studio delle popolazioni locali, pubblicando i suoi resoconti di viaggio su “National Geographic”. E proprio sulle orme di Joseph Rock si è posto a sua volta Lawrence Osborne, il giornalista americano che un paio di anni fa si è segnalato all’attenzione del pubblico per le sue disincantate riflessioni sul turismo contemporaneo (“Il turista nudo”, Adelphi), e che ora propone questo breve e curioso libro di viaggio. Strada facendo, Osborne riesce a trovare diverse tracce del soggiorno di Rock. Nel villaggio di Yuhu, pochi chilometri a nord di Lijiang, la sua casa è stata trasformata in un piccolo museo, e al centro del lago di Lugu, sull’Isola del serpente, si conserva un’altra sua dimora.
Il viaggio di Osborne si conclude idealmente a Zhongdian, al confine col Tibet, nella città che nel 2001 il governo cinese, con disprezzo del ridicolo, ha ribattezzato appunto Shangri-La. In realtà è persino incerto se Rock vi mise mai piede. Ma soprattutto qui nulla ricorda la pacifica utopia intravista o sognata da Hilton. Cartelloni freschi di stampa mostrano cime innevate con la scritta “Shangri-La!”, ma l’abitato è squallido e caotico. Il monastero tibetano di Songzanlin, saccheggiato e chiuso durante la Rivoluzione culturale, è stato restaurato e riaperto per i turisti. Infiniti cantieri costruiscono alberghi che paiono prigioni: del resto Zhongdian/Shangri-La richiama già tre milioni di visitatori l’anno, ma sono solo le avanguardie di legioni ben più numerose. Il governo cinese infatti da qualche tempo punta molto sul turismo: il turismo internazionale naturalmente, ma anche il turismo domestico di milioni di cinesi che escono progressivamente dalle ristrettezze, e vogliono viaggiare, divertirsi, conoscere, ma senza troppe raffinatezze né sottili distinzioni. Il turismo è una risorsa preziosa specialmente per queste regioni occidentali della Cina, sin qui meno coinvolte nello sviluppo industriale, e quindi più arretrate economicamente, ma al tempo stesso, proprio per questa ragione, più ricche di attrazioni, a cominciare da quelle minoranze etniche (Naxi, Mosuo) che Joseph Rock aveva tanto amato. A lungo perseguitate, oggi queste genti sono blandite dal governo cinese, purché acconsentano a mostrarsi nei loro costumi tradizionali, come indiani nelle riserve.
Triste epilogo mercantile per un sogno di pace e di speranza. Del resto, ricondotta al suo significato più profondo, la vicenda della vecchia come della nuova Shangri-La mostra una dinamica ricorrente nella storia dei rapporti tra Occidente e Oriente: l’Occidente ammira negli orientali la sapienza e il distacco dai beni materiali, mentre questi ci invidiano la prosperità materiale. E finché ciascuno insegue l’altro, non si incontreranno mai, e Shangri-La, inteso come il luogo d’incontro di civiltà diverse, rimarrà appunto un’utopia.

Lawrence Osborne, “Shangri-La”, Adelphi, Milano 2008, pp.56, € 5,50.

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Il 31 agosto 2007 è una data memorabile nella storia dell’aviazione, anche se pochi se ne sono accorti: quel giorno nei cieli europei si sono incrociati ben 33.500 voli low cost. Una rivoluzione in pieno svolgimento che sta cambiando radicalmente la mobilità europea, e attraverso questa la geografia, la società, l’economia, gli stili di viaggio. È percio utile il libro del giornalista Emanuele Giusto che, per quanto un po’ ripetitivo in alcune parti, propone un quadro d’insieme completo e alla portata di qualunque lettore.

Un modello diverso

Il viaggio di Giusto, che dà il titolo al libro, prova che il low cost è uscito dalla sua fase sperimentale, ed è qui per restare. Basti pensare che ogni anno circa duecento milioni di persone volano a basso costo in Europa, dove trenta compagnie si dividono questo mercato, che vale un terzo del trasporto aereo complessivo. Anche se il modello low cost è nato negli Stati Uniti con la compagnia Southwest, solo nel nostro continente sono disponibili così tanti voli, e a un prezzo così basso. Tra le 50 ragioni per amare l’Europa, Beppe Severgnini metteva i “voli aerei a buon mercato. Per un coppia di Varese, un weekend a Varsavia costa meno di una cena in città”. Nel 2007 Ryanair, la principale compagnia low cost europea, ha trasportato 42,5 milioni di passeggeri (British Airways “solo” 27 ml) con 163 aerei e 620 voli al giorno, collegando 120 destinazioni, e con un costo medio del biglietto di appena 44 euro (contro i 186 di Alitalia, per esempio). Alla base di questo successo c’è un modello d’impresa diverso da quello delle tradizionali compagnie di bandiera. La flotta è composta da aerei nuovi, così da ridurre i consumi, e dello stesso tipo, per risparmiare sui costi di manutenzione. Hanno però più posti a sedere (sono quindi un po’ più scomodi), e un’unica classe turistica. In media volano di più e con più posti occupati. Anche il personale lavora di più, ed è pagato di meno. Ogni altro costo o servizio non strettamente indispensabile viene implacabilmente tagliato (No frills); il ricorso a Internet elimina la necessità di intermediari, e l’utilizzo di aereoporti secondari riduce ulteriormente i costi. La sicurezza è allo stesso livello di tutte le altre compagnie, anzi maggiore, dato che gli aerei sono più moderni. E anche la puntualità, necessaria per garantire più voli al giorno, è superiore alla media.

Uno sguardo al futuro

Le compagnie low cost sono sopravvissute a colpi durissimi - l’11 settembre, l’aumento del costo del carburante ecc. - che hanno invece messo in ginocchio molte compagnie tradizionali. Si avviano ormai a monopolizzare i voli diretti a corto raggio (point to point), mentre cercano un modello organizzativo che consenta loro di aggredire anche il mercato dei voli intercontinentali, dove però non sembra possibile trasferire le logiche sin qui sperimentate. E se in passato erano considerate compagnie per giovani squattrinati, oggi i loro sforzi maggiori sono rivolti a chi viaggia per lavoro (un terzo della clientela low cost), con offerte mirate alle aziende piccole e medie, interessate a contenere i costi, ma anche alla puntualità.
L’orizzonte insomma è roseo, ma caldo. L’incognita principale è rappresentata infatti dai problemi ambientali, e in particolare dal riscaldamento globale, che si vorrebbe contenere anche con restrizioni ai voli (dal 2011). Le compagnie low cost reagiscono con irritazione a queste misure, rivendicando giustamente che i loro aerei consumano e inquinano meno dei vecchi modelli; ma il vero problema è che queste compagnie provocano una crescita esponenziale del numero dei voli, poiché solo facendo volare milioni di passeggeri possono sostenersi.

Un nuovo stile di viaggio?

Le compagnie low cost hanno introdotto nell’ambito dei viaggi nuovi consumi, che sono presto diventati anche nuovi stili di vita. L’equivalente per le passate generazioni furono i biglietti ferroviari cumulativi InterRail (www.interrailnet.com), che consentivano epici viaggi estivi di mesi, ai quali seguivano lunghi periodi di immobilità. Per la nuova generazione – che veste Zara, arreda la casa con Ikea, e telefona con Skype - volare spesso in un Paese straniero è invece un’esperienza quasi banale. Il concetto di distanza si ridefinisce, e famiglia, lavoro, amore, amicizie sono sempre più spesso separati nello spazio anche da centinaia di chilometri. Per esempio chi lavora al Nord acquista seconde case in Francia o in Spagna nei pressi degli aereoporti serviti dalle compagnie low cost, e vi trascorre quasi tutti i fine settimana. Per beneficiare delle tariffe più favorevoli, questi nuovi viaggiatori programmano con largo anticipo, ma sono anche pronti a cogliere occasioni last minute, e seguendo le lusinghe di una tariffa scontata vanno spesso alla scoperta di luoghi che non avrebbero mai pensato di visitare. Il viaggio diventa insomma più breve e frequente: alla fine il risparmio svanisce e si finisce per spendere lo stesso, ma viaggiando di più. I giovani cresciuti con Internet e l’Erasmus, che hanno reti di amicizie nelle diverse città europee, si ambientano facilmente, per gli altri un certo spaesamento è forse inevitabile. È nata la Low Cost Generation?

Alcuni consigli per muoversi nel mondo low cost

- Aspettatevi lunghe file al check-in, e qualche volta orari di partenza improbabili. Arriverete probabilmente in aereoporti distanti dalla città (per esempio Beauvais è a 70 km da Parigi), mettete quindi in conto un’ora di autobus aggiuntiva e 20 euro di biglietto.
- Per beneficiare delle offerte low cost occorre avere parecchio tempo da spendere navigando in Internet, e un quadro ben chiaro dei propri impegni: infatti i biglietti a minor prezzo vengono offerti tra 70 e 50 giorni prima della partenza. All’ultimo momento i prezzi possono salire alle stelle (se l’aereo è pieno) o scendere al minimo (se è vuoto).
- I prezzi delle compagnie low cost non saranno sempre quelli pubblicizzati, ma sono davvero bassi; e la nuova normativa obbliga ora a indicare il prezzo finale, tasse incluse. Attenzione però ai vari e fantasiosi sovrapprezzi, che possono far lievitare di parecchio un biglietto. Per esempio si paga per utilizzare la carta di credito, così come per ogni bagaglio stivato, che non deve superare un peso fissato (di solito 15 kg): un piccolo sovrappeso può costare carissimo (anche 6-10 € per chilo!). Leggete con attenzione le pagine web, il sistema spesso seleziona in automatico alcune voci di spesa non indispensabili, quali le assicurazioni.
- Non aspettatevi servizi che non siano strettamente concordati, né eccezioni di sorta: l’aereo partirà senza di voi se siete in ritardo (anche senza colpa). Spostare il volo o cambiare intestario del biglietto è mission impossible, perciò se qualcosa va storto, meglio metterci una pietra sopra: di solito i reclami cadono nel vuoto, e le compagnie low cost spesso non hanno neanche un centralino!

Emanuele Giusto, “Il giro d’Europa con 30 Euro* (*168,98 tasse incluse). Low Cost, istruzioni per l’uso”, Feltrinelli, pp.224, € 13,00

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