mercoledì 14 novembre 2007

martedì 13 novembre 2007

(Il mercato del Capo di Palermo - foto di Andrea Pistolesi)

“Due donne e un’oca fanno un mercato”, sostiene un proverbio piemontese, che credo diffuso in varie forme anche altrove. Per una volta non è solo misoginia, quanto piuttosto il riconoscimento dell’importanza delle donne in quest’ambito, specie in Africa e Asia, dove a loro è tradizionalmente affidato il piccolo commercio (che a volte diventa grande, come in Togo, dove le “regine del mercato” sono chiamate “Nana benz” per lo sfoggio di Mercedes).
E proprio ai mercati di tutto il mondo è dedicato l’ultimo libro del fotografo Andrea Pistolesi, che ha raccolto e accostato con intelligenza oltre 300 immagini scattate in una lunga serie di viaggi nei cinque continenti. Il filo rosso che consente di tenere assieme realtà tanto diverse è la metafora teatrale, l’idea cioè che il mercato, qualunque mercato, sia sempre costruito intorno ad alcuni elementi ricorrenti.
Prima di tutto viene l’equivalente della locandina teatrale, ovvero tutto ciò che serve ad attirare e incuriosire i clienti, e quindi vetrine e insegne, che spaziano da semplici cartelli scritti a mano a complicate scritte fluorescenti.
Gli attori principali sono naturalmente i venditori, colti all’opera o dietro le quinte: poveri ambulanti o eleganti commesse, impassibili venditori orientali o chiassosi meridionali, che gridano, scherzano coi clienti e magnificano con improbabili iperboli i loro prodotti.
L’equivalente del palcoscenico teatrale sono i luoghi del mercato, anche qui i più diversi, all’aperto o al chiuso, di giorno o di notte: a volte un semplice cesto, una barca, le strade, un qualunque piazzale vuoto, che tuttavia nei giorni fissati cambia volto e si copre di bancarelle; e ancora i bazar, i suq, fino ai scintillanti saloni dei centri commerciali. Da noi la scena è quasi sempre la piazza, e quante si chiamano proprio “Piazza del mercato”.
L’argomento della rappresentazione teatrale è naturalmente sempre uno e uno soltanto: il prodotto in vendita, ovvero qualunque oggetto riusciate ad immaginare, più molti altri che mai vi verrebbero in mente. Ci sono mercati specializzati (frutta e verdura ad esempio) e altri dove trovi di tutto: è normale vendere dromedari al Bakti Market di Amhara in Etiopia, o i bufali al mercato di Can Cau in Vietnam, ma anche statue di Padre Pio a S.Giovanni Rotondo o di Lenin a San Pietroburgo.
Infine il mercato è teatrale soprattutto nell’eterna, complice schermaglia tra venditori e clienti (i comprimari), che comincia con la finta indifferenza di questi ultimi, o l’altrettanto finto stupore per un prezzo troppo alto, premessa di lunghe trattative e mercanteggiamenti, che si concludono, se tutto va bene, nell’acquisto e nel gesto più simbolico, lo scambio tra la merce e il denaro, l’essenza stessa del mercato. Ci sono anche altri gesti simili ovunque, a cominciare dal dito alzato: “Scusi, tocca a me”, o al contrario piccoli riti di un particolare mercato: al Pike Place Market di Seattle, una volta scelto il pesce da acquistare, tradizione vuole che il commesso lo lanci con destrezza al cassiere, dall’altra parte della stanza.
Nella visione dell’autore, le affinità dovrebbero prevalere sulle diversità, nel ripetersi di gesti e situazioni, ma di fatto poi, scorrendo il volume, l’attenzione del lettore si concentra quasi per intero sugli sgangherati, animati e coloratissimi mercati dell’Africa, dell’Asia o dell’America Latina, quel mondo NAG (Non Ancora Global) che Pistolesi ha celebrato, rimpiangendone la prossima scomparsa, in un altro suo libro appena uscito. Credo che quello che ci affascina nei mercati dei Paesi poveri sia il prevalere della funzione sociale su quella economica: frequentare il mercato rafforza i vincoli comunitari, è luogo di corteggiamento, occasione per incontrare amici e parenti, scambio di parole prima che di merci.
Il mercato è anche una risorsa preziosa per il viaggiatore che desidera conoscere più a fondo i luoghi visitati. Niente di meglio, per acclimatarsi in una città sconosciuta, che alzarsi presto e recarsi a visitare il mercato locale, ad esempio il mercato del pesce delle città mediterranee, che si anima alle prime luci del giorno con il ritorno dei pescherecci. Ma forse il racconto di questi viaggi lontani risveglierà in qualche lettore anche la curiosità di visitare i mercati del cantone, a cominciare da quello di Bellinzona il sabato mattina naturalmente, oppure quelli che si spostano di paese in paese sulla base di complicati e antichi calendari settimanali, che legano comunità diverse. Per i “viaggiatori d’Occidente” lontano e vicino, in fondo, sono soprattutto negli occhi di chi guarda.

Andrea Pistolesi, “Un mondo di mercati”, Touring Club Italiano, Milano 2007, pp.384, €19,50; “NAG. Non ancora global”, Touring Club Italiano, Milano 2007, pp.192, €19,50

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Ogni viaggio è la prova generale di una fuga, e prima o poi un pensiero impertinente si affaccia alla mente: cosa succederebbe se sparissi per sempre? Addio alle solite facce, alle routine professionali e coniugali, e naturalmente anche a tasse, bollette, burocrazia... Poi, nella maggior parte dei casi, si sceglie di restare nel proprio mondo, forse per pigrizia, ma naturalmente anche per mille (buone) ragioni. Ma cosa accomuna chi invece ha fatto davvero il grande passo? Lo psicologo e criminologo Roberto Di Marco ha raccolto in forma anonima 15 racconti di espatriati che hanno deciso di inventarsi una nuova vita in un Paese lontano (con un test per capire se si è pronti a imitarli).
Perché si recide ogni legame con il proprio luogo d’origine? A volte naturalmente per necessità, ad esempio per fuggire dalla malavita, dal fisco, dai debitori, oppure per sottrarsi a una realtà frustrante e inadeguata, per bisogno di avventura e di arricchimento interiore. Il libro è un po’ disordinato, e la distinzione tra i criteri e le storie presentate non è sempre chiara, ma di certo lasciare tutto non è mai una scelta facile, e per compierla occorre spesso la spinta di un evento traumatico: un lutto, la minaccia della povertà, di uno scandalo o simili, anche se alcuni dei protagonisti sembrano lasciar volutamente peggiorare la propria situazione per crearsi un alibi per la fuga. A pochi invece partire per sempre riesce naturale, e sono quelli a cui una vita sola non basta, come uno degli intervistati, prima giovane hippy, poi imprenditore, padre di famiglia e infine avventuriero.
Una volta sciolte le catene della quotidianità gli esiti sono imprevedibili, come nel caso di quel veneto, intermediario d’affari con una vita senza sorprese, che finirà pilota d’idrovolante nelle Filippine, dove continuerà a guardare il programma preferito – ovviamente “Chi l’ha visto?” - sul satellite. Mentre un torinese, dopo aver perduto moglie e figlio in un incidente stradale, e aver scoperto che la moglie lo tradiva da sempre, diviene una sorta di cantastorie in un remoto villaggio siberiano.
Quasi sempre il Paese prescelto è in Asia, in Africa, o in America del sud, logicamente perché è più difficile essere ritrovati, ma anche perché lo spettacolo quotidiano delle sofferenze altrui relativizza e sminuisce le proprie; sono poi parti del mondo dove sopravvivono strutture familiari e di comunità più coese e stabili, e dove l’individuo non si sente abbandonato a sé stesso, come in Occidente.
In quasi nessuno dei percorsi raccontati l’integrazione in un’altra cultura può dirsi interamente riuscita: anche nel caso di maggior successo - lo svedese in Yemen che diventa musulmano, con tanto di moglie e concubine - si avverte un fondo non risolto di misoginia e di rivalsa verso le donne occidentali. E anche quando gli interlocutori sono formalmente cordiali, si ha comunque l’impressione di essere tollerati (e apertamente sfruttati per il proprio denaro) più che accettati. L’espatriato resta sempre sul limite tra due mondi, in una condizione precaria e provvisoria, ma qualcuno ama proprio questa libertà dello straniero (di cui parla bene Magris nel suo “L’infinito viaggiare”) e si gode una vita più spontanea e naturale, senza formalità o ruoli.
E dunque, per tornare al titolo, “Cosa ti porti dietro se sai di non tornare più?” La risposta sembra essere: il passato, che in qualche forma riaffiora sempre, nella nostalgia delle persone o dei luoghi, in un senso di colpa, nell’impossibilità dolorosa di risolversi interamente, senza residui, in un destino diverso da quello che ci è toccato in sorte.

Roberto Di Marco, "Cosa ti porti dietro se sai di non tornare più?”, fbe, Milano 2007, pp.288, € 13,00.

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