sabato 29 settembre 2007

Quando saremo lontani da questo piccolo paese in cui siamo nati e viviamo, quando finalmente ci sentiremo nascere dentro amore e nostalgia per le cose che oggi ci circondano e mortalmente ci annoiano (...) quello sarà veramente il nostro paese: perché la lontanaza darà dolci cadenze alla noia di oggi e all’angustia; e diventerà un po’ amore quel che ora è insofferenza e reazione.
Sciascia, di Racalmuto.

Dal ’46 posso dire che vivo in modo stabile fuori dalla mia isola. Essa mi è diventata estranea quanto occorre per giudicarla e oggetto di nostalgia quanto occorre per capirla. Paolo Brancati.

martedì 25 settembre 2007



Tao!



Manichini



Indovina



Aquiloni


Giochi per strada

Monaco buddista



Caratteri cinesi scritti con l'acqua per esercizio...

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Esiste il viaggio perfetto? Per me è il viaggio siciliano (e mi verrebbe da aggiungere, per ragioni anche di affettuosa consuetudine: nella Sicilia occidentale, a Marsala). Ma credo che questa non sia solo la mia opinione. Quanto meno lo credeva anche il grande critico letterario Mario Praz: “Il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo. ... In Sicilia il retroscena storico è profondissimo, e la varietà del paesaggio supplisce alla relativa ristrettezza spaziale, sicché si potrebbe facilmente sostenere che quello di Sicilia è il viaggio perfetto”. Se credete, anche voi potete fare una prova: durante una conversazione serale tra amici ragionevolmente coltivati, portate il discorso sui viaggi, e menzionate diverse possibili destinazioni; i pareri saranno inevitabilmente discordi. Accennate poi alla Sicilia, e vedrete i volti di tutti illuminarsi, nel ricordo o nell’aspettativa. Nessun’altra terra del resto fu tanto amata. Teocrito, originario di Siracusa, pensava che non vi fosse al mondo nulla di più bello che contemplare dall’alto di una riva il mare di Sicilia; e diversi poeti arabi piansero lacrime amare quando dovettero abbandonare l’isola: “Se son stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia?”, scrive ad esempio Ibn Amdìs. Ancora Goethe ne ribadisce la centralità nel viaggio italiano: “Senza conoscere la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto.” E molti libri recenti, tra cui quelli di Matteo Collura, ne perpetuano la fascinazione.
Che cosa dunque rende così speciale quest’isola al centro del Mediterraneo? In primo luogo, ovviamente, il clima: il sole, l’aria mite anche nelle stagioni fredde, i profumi di terra e di mare... E poi il paesaggio naturalmente, fantasticamente variato di vulcani, monti, colline, piane, riviere, disegnato da una luce che sembra scaturire dalle cose stesse. Un paesaggio che non è mai sfondo inerte, che sembra partecipare alle vicende umane: “Questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’arsura dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali”, lamentava Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Viene poi la storia, infinita, millenaria, stratificata, diversa nelle tre parti in cui l’isola (Trinacria) è tradizionalmente divisa: la sicilia orientale “greca”, l’occidentale “fenicia”, la centrale, chiusa in sé stessa e quasi dimentica del mare. Una civiltà ricca e variata in ogni suo aspetto è sorta dagli scambi, dagli incroci, dalle contaminazioni con fenici, greci, cartaginesi, romani, bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi... Naturalmente non mancano in questa storia, e specie nella più recente, anche le zone d’ombra: il degrado ambientale, l’abusivismo edilizio, i disservizi, la corruzione nella politica, o quella mafia tanto famosa, che tutti i viaggiatori hanno in mente, e di cui cercano i segni nei luoghi o sui volti delle persone, senza peraltro trovarli mai... Ma credo che questi elementi negativi, di cui i viaggiatori sono peraltro quasi sempre ben consapevoli, non pregiudicano oltre un certo limite il fascino della Sicilia, semmai lo rendono piacevolmente ambiguo e inquietante. Del resto il viaggiatore, nel suo breve soggiorno, può facilmente adattarsi, o addirittura trovare interessanti, quelle che per i locali sono quotidiane pene.
Ma in fondo la vera attrattiva del viaggio siciliano sono i siciliani stessi (e, oltre ai libri di Collura, ricercate anche Gaetano Savatteri, “I siciliani”, Laterza 2005): uomini complessi e affascinanti, levigati dal tempo e resi splendidamente scettici dal succedersi delle dominazioni, soprattutto duplici e contraddittori in ogni loro aspetto. E così le più lucide intelligenze sono spesso attraversate da una sottile vena di pazzia. Ad Agrigento, terra di Pirandello (era nato in contrada Caos), sorgeva il più grande manicomio di Sicilia, che sul frontone recava scritto: “Non tutti lo sono, non tutti ci sono.” E il gioco degli opposti può continuare all’infinito. Il più tenace attaccamento al proprio luogo d’origine ha consentito infinite emigrazioni: siciliani di scoglio e di mare aperto. La teatralità dei gesti facilmente si muta in chiusa riservatezza, e l’ospitalità più splendida (chi non ha conosciuto l’ospitalità siciliana non sa cosa sia la vera ospitalità) si alterna alla diffidenza verso gli estranei. La liberalità va insieme a un feroce attaccamento ai propri beni (la roba di Mastro don Gesualdo). La pubblica visibilità degli uomini non intacca il privato potere delle donne, vestite di scuro, in un angolo della casa: “l’uomo comanda, la donna decide”, si dice in Sicilia, dove la dialettica uomo/donna (masculi e fimmini) è tra le più complicate. E in nessun altro luogo, come nel paese della luce, è così forte la presenza del buio e della morte, esorcizzata e celebrata nei fastosi funerali (che si alternano a matrimoni di lusso leggendario). Se chiedete a un siciliano come sta, riceverete per risposta: “Qui siamo”, sintetica e saggia riaffermazione di quanto sia precario il nostro stare al mondo.
In fondo, tutto questo ci conduce ad una semplice conclusione: la Sicilia, a differenza della più chiusa Sardegna, non è un’isola, quanto piuttosto un continente in miniatura, che non si finisce mai di comprendere e di amare. Ben lo sapeva Gesualdo Bufalino, il meno siciliano degli scrittori isolani: “Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto d’isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e di costumi, mentre qui tutto è mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante...”. E Matteo Collura, riprendendo l’amato Sciascia, di cui ha scritto una bella biografia, può concludere felicemente che “La Sicilia è metafora del mondo: un’isola che non potrà mai essere collegata con un ponte, per la semplice ragione che è impossibile collegare un continente a un altro, anche servendosi delle tecniche ingegneristiche più strabilianti ed efficaci”.

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“Come posso migliorare il mio modo di viaggiare?”. È la domanda che più frequentemente mi viene rivolta, dai più diversi interlocutori, quando apprendono che di questo mi occupo. A tutti rispondo: “Chiudete gli occhi”. Chiudete gli occhi perché la vista - ovviamente insostituibile - è troppo spesso il solo senso che impieghiamo nell’esperienza del viaggio, a scapito dei rimanenti. È vero che in tempi più recenti abbiamo imparato a leggere il territorio anche attraverso il gusto. Scriveva Italo Calvino: “il vero viaggio, in quanto introiezione d’un fuori diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (...) Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona”. E altri propongono viaggi musicali (ad esempio www.noteinviaggio.it), tuttavia quasi nessuno viaggia seguendo l’olfatto, il più antico tra i nostri sensi, quello che maggiormente ci lega alla dimensione animale, risvegliando le emozioni, ma sottraendosi al controllo razionale, ragione per cui Aristotele lo mise all’ultimo posto tra i sensi.
In questa prospettiva è prezioso il libro dell’antropologo Gianni De Martino e dell’erborista e compositore di profumi Luigi Cristiano. De Martino e Cristiano hanno raccolto i loro viaggi seguendo i più nobili tra gli odori, i profumi, e più precisamente hanno visitato i luoghi d’origine delle materie prime, dei prodotti naturali con cui i profumi sono preparati (anche se la chimica gioca un ruolo sempre più importante). Hanno poi opportunamente approfondito molti altri aspetti dei territori dove queste sostanze sono prodotte, e dei popoli che le coltivano. Meno riuscita invece l’individuazione del pubblico a cui il libro si rivolge, se studiosi, specialisti o semplici lettori.
Tra i diversi viaggi proposti, inevitabile partire dalle rose, il cui profumo è forse il più apprezzato nell’universale. L’odor di rosa ci conduce in uno dei Paesi prediletti dai profumieri, il Marocco, dove si dà il benvenuto all’ospite di passaggio offrendogli acqua di rose da piccoli contenitori dal collo oblungo (mrash’). La meta finale è la vallata di Dadès (300 km da Marrakech), sulla soglia del deserto, dove si stendono a perdita d’occhio campi di rosa pallida, e dove, nelle prime settimane di maggio, in occasione della raccolta, tutta la popolazione dà vita all’indimenticabile Festa delle rose. Le rose vi condurranno anche in altri luoghi affascinanti e sconosciuti, ad esempio tra le distese di rosa damascena di Isparta, nelle valli del Taurus in Turchia (dove la rosa è chiamata gul, che vuol dire anche “sorriso”): qui la rosa fu introdotta dalla Bulgaria, quando ancora apparteneva all’impero ottomano, e proprio questo Paese balcanico può rappresentare la terza tappa di questo viaggio così particolare. Altre piante e altri aromi vi orienteranno in tutt’altra direzione. Ad esempio la rara e ambita vaniglia naturale (la maggior parte di quella che consumiamo è invece artificiale) vi condurrà nelle terre dell’antico popolo dei Totonachi (Stato di Puebla e Veracruz); sottomessi dai più combattivi Aztechi, i Totonachi diedero loro tributi in vaniglia, e proprio alla corte azteca i nuovi conquistatori, gli spagnoli guidati da Hernàn Cortès, sperimentarono per la prima volta questa nuova e profumata sostanza, che da loro prese il nome attuale, colorandosi di erotismo (in spagnolo vainilla è diminutivo di vaina/vagina). Le verdi e morbide liane di vaniglia crescono ancora oggi nell’umida foresta messicana, o sono coltivate in piccoli appezzamenti sposandole ad alberi di arancio, ma la maggior parte della produzione è migrata verso il Madagascar e l’Indonesia, ideale prosecuzione di questo viaggio.
I profumi possono anche innescare viaggi nel tempo, ad esempio tra le rovine di Pompei, dove si visita la Casa del profumiere, che doveva essere solo uno dei molti piccoli ed eleganti negozi di sostanze odorose. Il profumo dei bianchi fiori degli aranci amari ci porta invece nella Spagna araba, a Siviglia, dove presso i resti della moschea, trasformata in cattedrale nel XV secolo, si trova il Patio de los naranjos. E proprio alla civiltà araba di Spagna si deve in larga parte la riscoperta medioevale dei profumi, nei giardini silenziosi e nascosti d’Andalusia, odorosi di camomilla, giglio, lavanda, limone, menta, mirto, rosmarino... Gli Arabi erano (e sono) soliti profumarsi per le preghiere del venerdì, nelle moschee si bruciavano piante e legni odorosi (aloe, incenso, sandalo), e durante il loro dominio in Andalusia importarono nella profumeria europea anche i pesanti e inebrianti profumi dell’oriente (ambra, muschio animale), profumi che oggi ci sono ritornati in larga parte stranieri, e che agli stranieri associamo. E ancora solo nella memoria si trovano le tracce delle vaste coltivazioni di gelsomino in Sicilia, oggi trasferite in Tunisia ed Egitto (ma a Modica si può gustare un originale gelato al gelsomino). È sempre vivo invece il profumo del Tiaré, la gardenia di Tahiti, simbolo nazionale del Paese che sedusse Gauguin, richiamandolo con forza a sé qualche mese dopo il suo ritorno a Parigi: “Nel silenzio della mia casa, sogno le armonie violente dei profumi naturali che m’inebriano...”.
Ma in fondo non occorre nemmeno spingersi così lontano, nello spazio e nel tempo. Possiamo viaggiare anche solo entrando in una profumeria, per acquistare Un jardin sur le Nil di Hermes, o Arabie di Serge Lutens; e per dischiudere le porte d’Oriente bastano Samsara di Jean-Paul Guerlain, o Opium d’Yves Saint Laurent. Ma nessuno promette un viaggio più raffinato di Un certain été à Livadia, di Christine Nigel, che ci porta in Crimea, nei giardini del palazzo di Livadia, ultima residenza d’estate degli zar. E dunque, se d’abitudine chiediamo a chi torna da un lungo viaggio: “Cos’hai visto?”, la prossima volta forse gli chiederemo piuttosto: “Cos’hai annusato?”.
Luigi Cristiano e Gianni De Martino, “Viaggi e profumi. Alla scoperta degli aromi del mondo naturale nei Paesi delle essenze”, Urra, Milano 2007, pp.184, € 12,00.

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