venerdì 4 agosto 2006

Grazie per i giorni davvero incredibili vissuti insieme. Quando l'aereo domenica è finalmente partito da Roma, dopo che erano stati cancellati i due voli prima, ho pianto. Ho cominciato e non ho più smesso. Grignani, il cantante, seduto di fianco a me, mi ha preso per una cretina. Ho sentito che le ruote si staccavano da terra e non volevo: significava tornare, a casa. Tra malinconie varie alle quali si trova sempre il rimedio con una valigia in mano. La fine del viaggio, unico irripetibile pazzesco. Senza andare chissà dove, ma solo in Sicilia, ma giorni pazzeschi vissuti come non mai, non mi ricordo neanche quando avevo vissuto così. E soprattutto, l'avevo mai fatto? Grazie a tutti per la vita che mi avete dato, quando poi a molti giovani come noi viene tolta. Sto scrivendo di getto cose insensate, ma non importa, mi viene così da accostare le assurdità della vita, pazzesche. Grazie ancora, ho conosciuto persone speciali, mi viene in mente tra tutte le cose da dire una poesia di Caproni, che per me ha sempre tutte le risposte. E’ "Il congedo del viaggiatore cerimonioso".
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
(Scusate. E’ una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto che io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare. Ecco.
Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cosa importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote, congedo,
che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.
Certo qui la fine del viaggio è anche quella del Viaggio vero e proprio di sola andata, ma mi piaceva l'idea del conversare insieme, del raccontare, del chiacchierare, del viaggiare coi miei compagni di viaggio, ottimi, fantastici. Per Monica: acquisti e regali da Marsala da mettere sul blog: ventresca e tonno Florio, sugo di pomodoro e pesce spada, pesto alla trapanese con mandorle, non ho ancora assaggiato niente, ma considerato il fatto che ci ho lasciato un patrimonio (ho fatto proprio la classica "pappona" milanese, vero Susanna?) saranno sicuramente buoni e i miei saranno contenti.
Un abbraccio fortissimo a ognuno di voi,
Sara Lonati

lunedì 31 luglio 2006

QUATTRO LEZIONI
SUL VIAGGIO IN SICILIA
I. Una “Scuola del viaggio”?
a) La “Scuola del viaggio” è costruita intorno a un’intuizione paradossale. Il viaggio si puo’ imparare, ma non insegnare. Per meglio dire, non si puo’ insegnare per via teorica, nozionistica, ma puo’ essere appreso solo attraverso l’esperienza, in un contesto artigianale, a contatto con i maestri, come un tempo s’imparavano i mestieri.
b) Passività visuale. Il principale limite del viaggio contemporaneo è la sua passività (si viene viaggiati) e la sua dimensione prevalentemente visuale. Il punto di arrivo a cui noi miriamo è invece una produttività multisensoriale, che si manifesta attraverso diverse forme di espressione creativa.
c) Viaggio e turismo. La “Scuola del viaggio” non incoraggia alcun sentimento di superiorità verso il turismo (“Io sono un viaggiatore, tu sei un turista”), ma conserva il senso di una diversità profonda, e neppure risolve il dilemma viaggiatore/turista in facili identificazioni (“Siamo tutti turisti”).
d) Il turismo è comunque un modo di viaggiare, nato all’inizio del XIX secolo al declinare della tradizione del Grand Tour. Fu intorno agli anni ’30 di quel secolo che le ferrovie trasformarono il viaggio da pratica elitaria in consumo di massa, garantendo sicurezza, comodità ed economia nei trasporti; le guide, create anch’esse in quegli anni, offrirono una chiara elencazione (le stelle!) di quel che un posto poteva offrire al visitatore, e infine, per i piu’ timidi o inesperti, le agenzie di viaggio combinarono queste due opportunità in un prodotto commerciale (il “pacchetto di viaggio”). Il turismo, insomma, è sapere dove si va, e cosa si farà. Essendo piu’ definito e limitato nella sua natura, il turismo puo’ essere imparato piu’ facilmente (e in effetti lo si impara sin da bambini, i genitori insegnano piu’ spesso ai figli ad essere turisti che non a viaggiare).

Lo straniero

e) Il viaggiatore è uno straniero di tipo particolare... per certi aspetti potrebbe essere considerato lo straniero per definizione. La sua integrazione nella società locale, a cui pure spesso confusamente aspira, è in realtà estremamente temporanea e limitata. Né forse il viaggiatore nel profondo la desidera veramente. Egli si muove piuttosto in uno spazio liminale, uscendo da una società senza entrare nell’altra: in questo trova il suo piacere, la sua peculiare libertà.

It’s sublime
This perfect solitude of foreign lands!
To be, as if you had not been till then,
And were then, simply what you chose to be.
Elizabeth Barrett Browing, “Aurora Leigh”


Il viaggio in Sicilia

f) Il viaggio in Sicilia? In questa parte della Sicilia? Nelle Sicilie?

Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe pero’ voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto d’isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e di costumi, mentre qui tutto è mischiato, cangiante, contradditorio, come nel piu’ composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finiro’ di contarle. Gesualdo Bufalino, “La luce e il lutto”

g) Scriveva Mario Praz che solo il viaggio di Sicilia è il viaggio perfetto: solo qui infatti le due dimensioni fondamentali che danno senso a un viaggio - la vastità geografica, la profondità storica – trovano un punto di equilibrio perfetto. Abbastanza grande per offrire varietà di paesaggi e ambienti naturali (la Sicilia è un’isola, ma anche la piu’ grande isola del Mediterraneo... Quando si cessa di essere un’isola per diventare qualcosa d’altro, un piccolo continente ad esempio?), la Sicilia offre al tempo stesso una straordinaria profondità storica, che rimonta a tutte le epoche, a tutte le dominazioni straniere.


II. La Sicilia è un isola di stranieri: Fenici, cartaginesi, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi, piemontesi, italiani... Tutte o quasi le popolazione del Mediterraneo (e oltre) hanno occupato queste terre, hanno portato credenze religiose, influssi linguistici, piante e cibi esotici, strumenti del lavoro. Qui tutti sono arrivati per dominare e dare la propria forma alla società, mentre chi partiva lo faceva quasi sempre nelle povere vesti dell’emigrante, bisognoso di tutto, dimentico o vergognoso della propria identità.
In realtà, naturalmente i Siciliani non hanno solo subito queste diverse culture, ma molto vi hanno portato di proprio. Le hanno influenzate a loro volta, adattate, recepite in parte, in parte rifiutate. E tuttavia, quando pensano se stessi, non è facile per i Siciliani misurarsi con equilibrio con questa passato.


a) Il piu’ celebre libro sui Siciliani è ovviamente – banalmente – “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per certi aspetti una chiave privilegiata per capire la Sicilia, per altri fonte di pregiudizi, malintesi, stereotipi, alibi al non fare, fatalismo. Don Fabrizio principe di Salina dice al piemontese Chevalley di Monterzuolo: Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il la; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia...

b) E Vitaliano Brancati, un altro dei grandissimi scrittori siciliani, incalza: L’Europa, che comincia a nord con fiumi gelati e popoli dal pensiero lucido e senza vertigini, dopo il gran salto delle Alpi, si ingolfa, da questa parte, nel Mediterraneo e finisce lentamente con la Sicilia. L’Europa che finisce: ecco la Sicilia. [l’Europa comincia o finisce in Sicilia?] Ma lo stesso Brancati, pur senza esplicitare a fondo il collegamento tra le due notazioni, scrive anche che L’intelligenza siciliana ha acquistato una facoltà di comprendere che nessun europeo e nessun africano ha mai avuta.

c) Per finire con una notazione piu’ leggera, potremmo rifarci alla celebre distinzione di Vittorio Nistico’, tra Siciliani di scoglio e di mare aperto, a seconda della propensione ad andare, a stare, E un celebre proverbio siciliano recita: Cu nesci, arrinesci (Chi esce, riesce). Riconoscimento autocritico che nell’isola mancano le condizioni (economiche, sociali, culturali) per la piena espressione di sé, ovviamente; ma anche alibi per i fallimenti e gli insuccessi di chi ha preferito o dovuto rimanere in Sicilia. Insomma il riconoscimento dei propri limiti non è mai disgiunto da un moto d’orgoglio, e allora il proverbio dice anche che chiunque parte, anche il meno dotato, poi riesce, come se la pianta uomo in Sicilia fosse naturalmente vigorosa, ma non potesse crescere per troppo affollamento di talenti; oppure che è pianta tale che solo trapiantandola puo’ crescere nel suo pieno vigore. Già molto tempo prima, d’altronde, un viaggiatore d’Italia scriveva che La coutume de voyager est à présent ci commune (..) qu’on ne estime presque point un homme qui n’a jamais abbandoné son pays. Tant il est vrai qu’on est persuadé que les voyages forment le jugement et perfectionnent l’homme, qu’on prétend être comme ces plantes qui ne peuvent porter de bons fruits qu’après avoir été transplanté. F. DESEINE, "Nouveau voyage d’Italie contenant une description exacte de toutes les Provinces, villes et lieux considerables" [1699]

III. Amore di stranieri: due stranieri giudicano l’isola.

a) Scrive il poeta arabo Ibn Amdìs:
Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita
Nell’animo il ricordo.
Un luogo di giovanili follie ora deserto,
animato un di’ dal fiore di nobili
ingegni.
Se son stato cacciato da un paradiso,
come posso io darne notizia?

b) Per gli Arabi la Sicilia era la perla del loro pur vastissimo impero, dove lasciarono tracce vistosissime della loro presenza; cosi’ simile al luogo da cui provenivano, per il suo essere calda e solatia, ma al tempo stesso di tanto migliore: piu’ verde, relativamente ricca d’acque, piu’ libera nel pensiero e nei costumi, come sempre nelle periferie dei vasti imperi. Per questo straziante fu il loro dolore quando dovettero lasciarla nelle mani degli odiati cristiani, amaro e interminabile il rimpianto.

c) Esiste un amore di stranieri? E potremmo forse spingerci sino a pensare che sia l’amore piu’ forte, perché amore elettivo, frutto di scelta, piu’ puro del legame viscerale che ci lega al luogo natio, cosi’ intenso che spesso si declina solo negli estremi di amore-odio. L’amore di stranieri prende spesso le direzioni piu’ inaspettate, e se gli arabi amavano follemente la Sicilia, Flaubert riusciva a pensarsi pienamente uomo solo in Egitto...

d) Molti secoli dopo (fine anni ’80 del XIX) un viaggiatore tedesco chiude la parabola del Grand Tour rompendone il chiuso carattere continentale anche attraverso un prolungato soggiorno in Sicilia. E qui giunto scrive: Senza vedere la Sicilia, non ci si puo’ fare un’idea dell’Italia. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto. Ma cosa significa, esattamente?


IV.
Nglisi scurdatu ‘e tempii (“Un Inglese dimenticato tra i tempi”).
Era Alexander Hardcastle; nel 1921, lasciato l’esercito inglese all’età di 48 anni e con il grado di capitano, giunse in Sicilia, e si stabili’ ad Agrigento. Stregato dalla Valle dei Templi e dai suoi tesori archeologici, letteralmente vi si perse, dimenticando tutto e spendendo l’intera sua fortuna per promuovere gli scavi e la valorizzazione del territorio. Ormai indigente, mori’ nel 1933 nel manicomio cittadino, solo, guardato dai locali con distacco e commiserazione. Dietro sua esplicita richiesta, fu sepolto in una modestissima tomba con una finestra sulla Valle dei templi, per farvi entrare la luce e il profumo dei mandorli a primavera. Uno dei molti stranieri che amarono quest’isola alla follia, e s’illusero di cambiarla.
Per inciso il manicomio di Agrigento era allora il piu’ grande di Sicilia (ospito’ per molto tempo tutti i matti dell’isola), e uno dei piu’ grandi d’Europa: Non tutti ci sono, non tutti lo sono, recitava la scritta all’entrata. E naturalmente proprio Agrigento, e in particolare la contrada del Caos, fu la città natale di Pirandello...

La “civiltà balneare” prese forma sulle spiagge del Mediterraneo nella seconda metà del secolo scorso: cabine, sdraio, ombrelloni, bagnini, castelli di sabbia, juke-box... curiosamente tutto fu inventato qui, in questo piccolo mare affollato di memorie storiche e religiose. L’America e l’Australia adottarono con entusiasmo questo modello di vacanza, aggiungendovi soltanto un elemento naturalistico (le palme), e il surf. Quest’ultimo tuttavia fu molto più di un dettaglio, come racconta “Elogio del surf”, il libro di Madeira Giacci che offre, per la prima volta in italiano, una buona selezione di informazioni e un filo conduttore abbastanza solido per ripercorrere, naturalmente con molta partecipazione, le non banali vicende del surf.
Il surf è originario dell’arcipelago delle Hawaii, dove veniva praticato con una forte valenza spirituale: il termine hawaiano He’e nalu significa infatti “scivolare sulle onde”, ma anche “pensare, riflettere, cercare la verità” o kantianamente (!) “sospendere il proprio giudizio”. Con la colonizzazione dei bianchi il surf declinò, così come altre manifestazioni della cultura di questo popolo, ma dopo l’annessione delle Hawaii agli Stati Uniti (1898) fu riscoperto dai turisti, e importato in California, che resterà sempre la sua terra d’elezione, insieme all’Australia. In Italia com’è noto il surf ha attecchito poco, anche per la mancanza di coste e onde adatte (meglio il Tirreno dell’Adriatico da questo punto di vista), anche se ha conosciuto una certa diffusione verso la fine degli anni Settanta.
L’apparente semplicità del surf cela ai non esperti la varietà degli stili, conseguente anche all’incessante evoluzione tecnica della disciplina, con un punto di svolta nella seconda metà degli anni ’60, quando le tavole diventano più corte e leggere (Shortboard), aprendo la via a nuove figure e acrobazie, e soprattutto permettendo di esplorare la “stanza verde”, scivolando lungo il cavo dell’onda avvolti in un tunnel di acqua e di luce. Più controversa la recente introduzione dei mezzi a motore (un’eresia per i puristi) nel surf da traino (Tow-in), che consente di affrontare onde gigantesche grazie alla maggiore velocità di partenza.
È intorno agli anni ’50 del Novecento che il surf raggiunge la piena maturità, si struttura in una forte sottocultura e genera mode e tendenze: ad esempio propone un modo di vestire volutamente non ricercato, comodo e informale, e ha la sua colonna sonora nelle canzoni dei Beach Boys (nonostante che solo uno di loro sapesse davvero surfare...). Il surf è anche uno stile di viaggio, il surf-safari (o surfari), lunghi viaggi intorno al globo rincorrendo l’estate infinita e l’onda perfetta (è il tema del film “Endless Summer”, 1966), o semplici scorribande lungo le coste della California a bordo delle “Woodies”, vecchie auto usate degli anni Trenta e Quaranta coi pannelli di legno sulle fiancate, senza vetro né sedili posteriori per trasportare più agevolmente le tavole e dormire al bisogno (lasceranno poi il posto agli altrettanto caratteristici furgoni Volkswagen Combi). Soprattutto il surf diventa il simbolo di uno stile di vita rilassato, disimpegnato: la spiaggia, i capanni, i falò, le scazzottate, le ragazze in bikini, le feste, gli amori estivi, la chitarra... Un’esperienza che per la maggior parte (ma non per tutti) si concludeva alla fine dell’adolescenza, con le responsabilità dell’età adulta, e che sarà ricordata con struggente rimpianto quando i giovani cominceranno a partire per la guerra in Vietnam.
Il surf ha presto attirato l’attenzione dei media, che hanno cavalcato il mito della California in decine di film di successo (il più famoso naturalmente “Un mercoledì da leoni”), e anche in conseguenza di questo il surf è stato rafforzato e al tempo stesso insidiato dalla commercializzazione e dal professionismo, provocando reazioni contrastanti, tra l’entusiasmo di chi scopriva di poter surfare per tutta la vita, e il disprezzo di chi considerava le novità corruzione.
Come si vede, anche senza sposare il punto di vista dell’autrice, spesso trascinata dalla sua passione (“Il surf è una filosofia”), senz’altro una storia del surf ha un senso e un interesse anche per chi non lo pratica. Curioso – o forse è un segno dei cambiamenti in corso - che questa storia sia stata scritta da una donna, considerato che il surf ha sempre conservato una forte connotazione maschile/maschilista, con le donne relegate al ruolo di fidanzate e spettatrici adoranti (“beach bunnies”); ma forse ben presto “You surf like a girl” cesserà di essere, come ancora è, un terribile insulto...

Madeira Giacci , “Elogio del surf”, Castelvecchi, Roma 2006, pp.220, € 16,00.
Clavis