Durante la guerra del Vietnam era di moda incollare sulla propria auto un adesivo che parodiava gli slogan retorici degli uffici di reclutamento americani: “Arruolati nell’esercito. Visita luoghi insoliti ed esotici. Incontra gente affascinante. E uccidili tutti". L’ironia scaturiva immediata dall’accostamento tra guerra e turismo, che in apparenza sembrano escludersi irrimediabilmente; poi, come spesso accade, la realtà aggira questi schemi rigidi, e apre prospettive diverse. La guerra infatti non è fatta solo di grandi battaglie e scontri all’ultimo sangue, anzi buona parte del tempo passa in occupazioni quotidiane semplici e ripetitive: logistica, trasferimenti, esercitazioni, pattugliamento... Si finisce così per percorrere un Paese straniero in lungo e in largo, interagendo con i suoi abitanti, con i quali si condivide un tempo difficile, drammatico, ma anche di grande intensità emotiva; alla fine del conflitto, quel Paese e quel popolo li si conosce in profondità, anche nelle parti più nascoste. Così, non appena il tempo stempera gli odi, è comprensibile che molti sentano il desiderio di rivedere luoghi ai quali li legano tanti ricordi. Ad esempio gli Australiani scoprirono l’Europa partecipando alla Prima guerra mondiale a fianco della madrepatria inglese (è la storia raccontata nel film “Gallipoli. Gli anni spezzati”), e vi tornarono poi regolarmente. E chi avrebbe immaginato che, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sarebbero stati i turisti tedeschi a risollevare le sorti del turismo italiano, tornando in costume da bagno negli stessi luoghi che li avevano visti in divisa, e talora compiere crimini efferati? Tutto sembrò rapidamente dimenticato tra spiagge, musica e amori estivi.
Qualcosa di simile sta accadendo oggi in Vietnam, e proprio la lunga, indimenticabile guerra (1964-75) ha costituito la principale attrattiva del Paese, non appena le condizioni lo hanno consentito. Dopo un periodo di isolamento e di stretta ortodossia comunista, a partire dalla fine degli anni ’80 il governo ha infatti concesso maggior spazio all’iniziativa privata, e ha aperto le porte al turismo internazionale, ottenendo risultati immediati (tre milioni e mezzo i visitatori nel 2006). Il Paese è rapidamente diventato di moda tra i viaggiatori più esigenti perché conserva atmosfere che la (troppo) rapida globalizzazione ha cancellato in larghe regioni dell’Asia (per approfondire questi temi, niente di meglio di “Good morning karaoke”, di Franco La Cecla, TEA 2004). I primi visitatori furono i Francesi, che nel XIX secolo avevano colonizzato la regione, e dopo la fine del loro dominio ne avevano rimpianto le morbide e decadenti esperienze d’oltremare. Dopo il disgelo voluto da Clinton negli anni Novanta sono arrivati anche gli Americani, la maggior parte dei quali, in qualche forma, aveva un legame con quel lontano Paese asiatico: basti pensare che circa sei milioni di loro soldati furono direttamente coinvolti nella guerra del Vietnam (e 60.000 non tornarono mai a casa). Gli Americani sono un mercato troppo attraente per un Paese povero, e l’esperienza turistica ha inevitabilmente imposto qualche sacrificio all’ideologia: e così a Cu Chi, una trentina di chilometri a nord di Saigon (sempre più di rado chiamata Ho Chi Minh City), si visitano i celebri cunicoli utilizzati dai vietcong per nascondersi e per infiltrarsi dietro le linee nemiche, che però, con sano realismo, vengono allargati per consentire il passaggio dei robusti turisti americani (10 dollari il biglietto). E, sempre a Saigon, inutile chiedere del “Museo dei crimini di guerra americani”, che ha ora un nome più discreto: “Museo dei ricordi di guerra”. Sul mercato si trovano infiniti souvenir, spesso palesemente falsi: accendini zippo, divise e fotografie, soprattutto di soldati del sud, perseguitati dopo la vittoria comunista e spogliati, o indotti a liberarsi, dei loro averi. Naturalmente dopo tutti questi anni molti luoghi sono tornati all’antica bellezza, ma i segni della guerra sono ancora visibili, specie al nord, dove il micidiale “agente arancio” (un diserbante che bruciando genera diossina) si è annidato nella doppia elica del DNA, e segna ancora la genetica della vegetazione e della popolazione.
Nella primavera del 2006 Gianluigi Ricuperati e Amedeo Martegani, uno scrittore e un’artista italiano, hanno ripercorso questi luoghi in un viaggio che si proponeva di raccontare la guerra dal punto di vista dei Vietnamiti. Infatti, caso quasi unico, la guerra più raccontata della storia è stata ricostruita soprattutto dai vinti, gli Americani: soltanto negli Stati Uniti, fino agli anni Novanta, più di settemila volumi sono stati pubblicati intorno a questo argomento. E i Vietnamiti? Quali ricordi conservano dell’immane tragedia? Poco, conclude il libro. Ai nipoti dei Vietcong non sembra importare più nulla della guerra eroica, della resistenza. Hanno gettato via tutto. La memoria è vuota. Le persone tacciono, sono elusive, distanti, anche se cordiali.
Sarà vero? Confusamente, qualcosa mi dice che non è così. Le ragioni di questo apparente oblio potrebbero naturalmente essere molte, e diverse dalla banale rimozione. Pensiamo alla brevità del viaggio (che contrasta con la raffinata costruzione di un libro intelligente e non facile): bastano poche settimane per far emergere un passato così traumatico, oltretutto in un Paese dove non c’è libertà di opinione, e lunghe persecuzioni hanno fatto della cautela una seconda natura? Ancora, più di metà della popolazione è nata dopo la conclusione del conflitto, di cui ha soltanto sentito parlare, senza averne esperienza diretta. E man mano che il consumismo si fa strada anche qui, come in tutta l’Asia, porta con sé una certa ammirazione per il modello americano. O forse la memoria ha in Asia un diverso modo di costruirsi e trasmettersi, che ci resta in larga misura estraneo, come tanta parte della mentalità di quei popoli. Ogni tanto poi l’oblio è necessario, al pari della memoria, per ritrovare la pace e guardare al futuro: e se, come racconta un veterano dell’esercito del sud, “Il vento soffia e spazza via i ricordi”, qualche volta forse è meglio così.
Gianluigi Ricuperati, Amedeo Martegani, «Viet Now. La memoria è vuota», Bollati Boringhieri, Milano 2007, pp.144, € 15,00
Qualcosa di simile sta accadendo oggi in Vietnam, e proprio la lunga, indimenticabile guerra (1964-75) ha costituito la principale attrattiva del Paese, non appena le condizioni lo hanno consentito. Dopo un periodo di isolamento e di stretta ortodossia comunista, a partire dalla fine degli anni ’80 il governo ha infatti concesso maggior spazio all’iniziativa privata, e ha aperto le porte al turismo internazionale, ottenendo risultati immediati (tre milioni e mezzo i visitatori nel 2006). Il Paese è rapidamente diventato di moda tra i viaggiatori più esigenti perché conserva atmosfere che la (troppo) rapida globalizzazione ha cancellato in larghe regioni dell’Asia (per approfondire questi temi, niente di meglio di “Good morning karaoke”, di Franco La Cecla, TEA 2004). I primi visitatori furono i Francesi, che nel XIX secolo avevano colonizzato la regione, e dopo la fine del loro dominio ne avevano rimpianto le morbide e decadenti esperienze d’oltremare. Dopo il disgelo voluto da Clinton negli anni Novanta sono arrivati anche gli Americani, la maggior parte dei quali, in qualche forma, aveva un legame con quel lontano Paese asiatico: basti pensare che circa sei milioni di loro soldati furono direttamente coinvolti nella guerra del Vietnam (e 60.000 non tornarono mai a casa). Gli Americani sono un mercato troppo attraente per un Paese povero, e l’esperienza turistica ha inevitabilmente imposto qualche sacrificio all’ideologia: e così a Cu Chi, una trentina di chilometri a nord di Saigon (sempre più di rado chiamata Ho Chi Minh City), si visitano i celebri cunicoli utilizzati dai vietcong per nascondersi e per infiltrarsi dietro le linee nemiche, che però, con sano realismo, vengono allargati per consentire il passaggio dei robusti turisti americani (10 dollari il biglietto). E, sempre a Saigon, inutile chiedere del “Museo dei crimini di guerra americani”, che ha ora un nome più discreto: “Museo dei ricordi di guerra”. Sul mercato si trovano infiniti souvenir, spesso palesemente falsi: accendini zippo, divise e fotografie, soprattutto di soldati del sud, perseguitati dopo la vittoria comunista e spogliati, o indotti a liberarsi, dei loro averi. Naturalmente dopo tutti questi anni molti luoghi sono tornati all’antica bellezza, ma i segni della guerra sono ancora visibili, specie al nord, dove il micidiale “agente arancio” (un diserbante che bruciando genera diossina) si è annidato nella doppia elica del DNA, e segna ancora la genetica della vegetazione e della popolazione.
Nella primavera del 2006 Gianluigi Ricuperati e Amedeo Martegani, uno scrittore e un’artista italiano, hanno ripercorso questi luoghi in un viaggio che si proponeva di raccontare la guerra dal punto di vista dei Vietnamiti. Infatti, caso quasi unico, la guerra più raccontata della storia è stata ricostruita soprattutto dai vinti, gli Americani: soltanto negli Stati Uniti, fino agli anni Novanta, più di settemila volumi sono stati pubblicati intorno a questo argomento. E i Vietnamiti? Quali ricordi conservano dell’immane tragedia? Poco, conclude il libro. Ai nipoti dei Vietcong non sembra importare più nulla della guerra eroica, della resistenza. Hanno gettato via tutto. La memoria è vuota. Le persone tacciono, sono elusive, distanti, anche se cordiali.
Sarà vero? Confusamente, qualcosa mi dice che non è così. Le ragioni di questo apparente oblio potrebbero naturalmente essere molte, e diverse dalla banale rimozione. Pensiamo alla brevità del viaggio (che contrasta con la raffinata costruzione di un libro intelligente e non facile): bastano poche settimane per far emergere un passato così traumatico, oltretutto in un Paese dove non c’è libertà di opinione, e lunghe persecuzioni hanno fatto della cautela una seconda natura? Ancora, più di metà della popolazione è nata dopo la conclusione del conflitto, di cui ha soltanto sentito parlare, senza averne esperienza diretta. E man mano che il consumismo si fa strada anche qui, come in tutta l’Asia, porta con sé una certa ammirazione per il modello americano. O forse la memoria ha in Asia un diverso modo di costruirsi e trasmettersi, che ci resta in larga misura estraneo, come tanta parte della mentalità di quei popoli. Ogni tanto poi l’oblio è necessario, al pari della memoria, per ritrovare la pace e guardare al futuro: e se, come racconta un veterano dell’esercito del sud, “Il vento soffia e spazza via i ricordi”, qualche volta forse è meglio così.
Gianluigi Ricuperati, Amedeo Martegani, «Viet Now. La memoria è vuota», Bollati Boringhieri, Milano 2007, pp.144, € 15,00
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