Scuola del viaggio
sabato 12 aprile 2008
Messa al confronto con questi esempi di moderno marketing, la buona, vecchia letteratura può apparire antiquata, ma di certo resta piuttosto efficace nell’attrarre visitatori. Tra i moltissimi esempi, si potrebbe citare quello di Frances Mayes, scrittrice e poetessa americana che si divide tra la Toscana e gli Stati Uniti. Il suo “Sotto il sole della Toscana” (1997, ne fu tratto un film nel 2003), ha avuto un successo enorme quanto inatteso, e ha trasmesso a migliaia di Americani di ogni classe sociale quel gusto per il viaggio italiano che gli Inglesi più agiati e colti avevano coltivato per secoli. Trama minimale: una scrittrice americana compra e ristruttura un casale (Bramasole) nella campagna tra Toscana e Umbria, presso Cortona, e lì inizia a trascorrere le sue estati. Paesaggi, giardini, cibi, persone: tutto così italiano... Piccole cause, grandi effetti: milioni di visitatori sono calati in Italia alla ricerca di Bramasole, facendo salire alle stelle i prezzi degli immobili, e affollando Cortona, sino ad allora meno popolare di altre destinazioni della regione. Il nuovo libro della Mayes racconta ora nuovi viaggi in Italia e nei Paesi vicini: “Sotto il sole del Mediterraneo”, il titolo d’obbligo (ma l’originale era “A Year in the World”). La ricetta – dal momento che in questi libri si parla molto di cucina – è la stessa: buona scrittura, disponibilità verso il lettore, accompagnato per mano in luoghi densi di richiami storici, letterari, musicali, qualche banalità alternata a osservazioni più eleganti; sono in fondo gli ingredienti abituali di un libro di viaggio di successo.
Qualcosa di simile potrebbe accadere anche in Ticino? Chi può dirlo, naturalmente, ma perché no? Non è forse considerato da molti la “Toscana della Svizzera”? E forse – azzardo - si potrebbe anche fare qualcosa per rendere la prospettiva più probabile. Certo nessuno ha in tasca la formula di un best seller, ma si potrebbe per esempio offrire ospitalità per un semestre a scrittori in ascesa, desiderosi di un tranquillo ritiro dove completare il loro prossimo libro; di certo non mancano nel Cantone luoghi splendidi adatti a questo scopo. A questi ospiti particolari si potrebbe chiedere soltanto di tenere qualche conferenza pubblica, naturalmente lasciando loro completa libertà di scelta su cosa scrivere, nella speranza che, presto o tardi, il nostro territorio diventi l’ambientazione di una loro opera. È una piccola puntata al buio (nessun risultato garantito), che potrebbe però generare una forte vincita: non siamo un Cantone famoso anche per il gioco d’azzardo?
Diciamo subito che il museo riceve una promozione piena per i suoi servizi, ma soprattutto per l’atmosfera cordiale che si respira nelle sue sale. Com’è prevedibile, attira soprattutto visitatori tedeschi o svizzero-tedeschi innamorati dell’autore di “Siddharta”, il cui successo non conosce declino (tra Amburgo e Innsbruck si vendono 1.000 copie dei suoi libri ogni giorno!). Per più della metà dei visitatori – ed è un dato francamente sorprendente - la visita al Museo è la principale motivazione del viaggio a Lugano.
Sono turisti di alto profilo: quasi tutti colti (70% ha un titolo accademico!), e molti agiati (prediligono alberghi a 4 stelle). Sono decisamente interessati alla vita di Hesse in Ticino, anzi si potrebbe dire che l’autore prediletto rappresenta una sorta di guida ideale al territorio circostante: infatti è soprattutto attraverso la Passeggiata “sulle orme di Hermann Hesse” che conoscono e apprezzano il territorio di Collina d’Oro (anche grazie alle nuove audioguide).
La ricerca apre inoltre qualche prospettiva più ampia. Altri luoghi del Cantone potrebbero infatti incuriosire questi stessi visitatori: luoghi ben noti ma solo parzialmente valorizzati come il Monte Verità, dove si coltivarono ideali che hanno oggi una nuova attualità; o anche luoghi rimasti più in disparte, come Ronco, dove ha vissuto a lungo un altro autore molto amato dal pubblico tedesco, Erich Maria Remarque, universalmente conosciuto per aver scritto “Niente di nuovo sul fronte occidentale” (1929), tradotto in più di 50 lingue.
Seguendo le fortune del ticinese d’adozione più famoso, si giunge così quasi a ipotizzare un “Parco letterario cantonale”, che proponga il Ticino ai suoi visitatori tradizionalmente più affezionati sotto una luce diversa, culturale e non solo naturalistica. In Italia si è fatta molta strada per questa via (www.parchiletterari.com), forse anche da noi si potrebbe, come ha scritto un anonimo visitatore del museo, camminare con le parole di Hesse.
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L’etimologia di “zingaro” rimanda a una falsa origine (atziganoi, egiziani), ma è comunque un termine corretto, che può essere tranquillamente usato purché spogliato dall’abituale significato spregiativo. È senz’altro più preciso di Rom (“uomo”), che indica una parte del variegato mondo nomade, ma non vale ad esempio per un altro gruppo di zingari, i Sinti. È solo un esempio di quanto poco sappiamo di questo strano popolo. Cominciamo dalla storia. Le vere origini degli zingari risalgono all’India, da dove migrarono mille anni fa, e la loro lingua (romanès) deriva dal sanscrito. Intorno al XIV secolo è segnalato il loro arrivo in Europa, dove riuscirono a trovare spazio nelle larghe maglie della società medioevale, ma solo per poco. Con il formarsi degli Stati nazionali la loro presenza apparve sempre più difficilmente conciliabile, e cominciò una lunga storia di pregiudizi e discriminazioni. “Erano la più brutta gente che si vedesse mai” fu la reazione al loro arrivo a Bologna nel 1422, e nel 1492 furono espulsi dalla Spagna cattolica insieme a ebrei e mori. Lo stereotipo dello zingaro ladro, pigro e imbroglione era già formato, anche se il peggio sarebbe venuto nel XX secolo, quando furono sterminati nei campi nazisti – tra 250.000 e 500.000 le vittime - nonostante le origini indiane e quindi “ariane”; un genocidio a lungo dimenticato. Il fascismo ebbe pure la mano pesante, e pagine oscure furono scritte anche in Paesi democratici come la Svizzera, dove tra il 1926 e il 1973, per volontà della Pro Juventute, almeno 620 bambini furono sottratti agli zingari Jenisch per essere affidati a famiglie adottive o a istituzioni, tenendoli all’oscuro delle loro origini (www.ti.ch/zingari).
Oggi in Europa gli zingari sono poco meno di nove milioni, e la maggior parte di loro vive nell’Europa dell’Est, da dove negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso partirono gli ultimi flussi migratori consistenti. Due milioni vivono entro i confini dell’Unione europea, soprattutto in Grecia e Spagna, ma anche nell’Italia del Sud, ad esempio a Palermo, dove il 6 maggio celebrano la loro antichissima festa per l’arrivo dell’estate, che ha il suo centro sul monte Pellegrino, all’interno del santuario di Santa Rosalia. E verso la fine dello stesso mese da tutta Europa confluiscono a migliaia in Camargue, a Saintes Maries de la mer, per onorare la loro patrona Santa Sara la Khalì (la Nera). Due buoni spunti per un viaggio in primavera avanzata.
Mille anni dopo il loro arrivo, gli zingari restano una realtà scomoda, di difficile comprensione e quindi gestione. È chiaramente una minoranza, ma non rivendica nessun territorio, non fa riferimento a nessuno Stato, è poco desiderosa di integrarsi... Probabilmente bisognerebbe rompere gli schemi tradizionali, e individuare soluzioni originali, ma quali? E andrebbero bene per tutti, considerato che gli zingari sono anche molto diversi tra loro? Se poni la stessa domanda a venti zingari, otterrai venti risposte diverse. D'altro canto, se poni per venti volte la stessa domanda a un solo zingaro, otterrai ugualmente venti risposte diverse.
Questo libro si concentra su alcuni aspetti indubbiamente significativi: i tentativi d’integrazione attraverso la scuola ad esempio, o le ricorrenti accuse di comportamenti criminali (quasi sempre furti), cresciuti da quando le professioni tradizionali degli zingari sono meno richieste. Ma stranamente affronta solo tangenzialmente l’esperienza del viaggio. Per me invece pensare agli zingari vuol dire soprattutto ricordare i pittoreschi e variopinti carrozzoni tirati da cavalli con cui viaggiavano fino a una cinquantina di anni fa, prima di passare a più moderne roulotte e caravan. Proprio i continui spostamenti del resto generano i tratti caratteristici dell’identità zingara. Ad esempio la necessità di rendere le proprie ricchezze facilmente trasportabili si è tradotta in quell’abbondanza di gioielli e vesti pregiate che sconcerta l’osservatore, perché contrasta con la povertà di altri aspetti della vita quotidiana. Anche le professioni sono solo quelle compatibili con il viaggio, e quindi gli zingari sono stati di volta in volta abili lavoratori di metalli, venditori ambulanti, commercianti di cavalli, musicisti, giostrai. Come in tutte le società mobili, l’autorità dei capi è soprattutto carismatica, e il loro potere è sempre in discussione, anche perché ad ogni bivio parte del gruppo può decidere di prendere una diversa direzione. Soprattutto il viaggio crea una diversa concezione del tempo e dello spazio, che si evidenzia quando si chiede ad esempio ai bambini zingari di stare immobili in un’aula scolastica per lunghe ore.
La condizione nomade è quella che più ha attirato disprezzo sugli zingari: dopo tutto “errare” è sinonimo di “vagare”, ma anche di “sbagliare”. Ma nella sua difesa degli zingari, o almeno nel reclamare giustamente un giudizio più articolato, l’autore sorvola su un aspetto significativo, e cioè che all’avversione verso gli zingari si è sempre alternata e accompagnata da parte dei sedentari anche una sotterranea ammirazione per queste creature esotiche e misteriose. Bruce Chatwin, affascinato dai nomadi, pensava che tale condizione fosse stata abbandonata troppo di recente (circa 10.000 anni fa) per non aver lasciato tracce nella nostra anima, quello che chiamava l’istinto nomade. Come prova di questo, osservava che i bambini smettono di piangere quando vengono cullati, cioè quando si riproduce l’effetto di stare in braccio alla madre che cammina (e i bambini Rom passano i primi due anni di vita sempre in braccio alla madre, perché di rado le condizioni igieniche o di sicurezza consentono di lasciarli liberi per terra); e quando una preoccupazione ci abita, sentiamo l’impulso di camminare per chiarirci le idee.
Degli artisti non parliamo. I romantici dell’Ottocento furono i primi a celebrare gli zingari come antitesi alla piatta vita borghese, in opere celebri come la “Carmen” di Bizet. E – dalle stelle alle stalle - “Zingaro voglio vivere come te/andare dove mi pare non come me” cantava qualche anno fa Umberto Tozzi (“Zingaro”, 1978). Ora va per la maggiore anche il gipsy punk dei Gogol Bordello, fisarmoniche e violini per un album dal titolo significativo di “Super Taranta”. Il gruppo è stato adottato da Madonna, come sempre implacabile nel fiutare le nuove tendenze: "Ho sempre ammirato gli zingari, sognato di vivere così, di musica, di viaggi, in modo spontaneo”.
In realtà gli zingari sono sempre meno nomadi: solo il 30% circa conserva questo stile di vita. In compenso, verrebbe da dire, si mettono in moto tutti gli altri, come se, dopo una lunga parentesi, nel mondo occidentale globalizzato riaffiorassero tratti del nomadismo. Stiamo sempre meno in casa, e il telefono fisso è spesso al servizio della segreteria telefonica; in compenso, chiamando al cellulare, anziché “Pronto chi parla?” chiediamo “Dove sei?”. Ho conosciuto alcuni viaggiatori che non hanno più da tempo una stabile dimora, ma anche manager che passano da un albergo all’altro, e lavorano in filiali sempre diverse della loro compagnia. Non ci vorrà molto perché gli zingari, dai loro tranquilli accampamenti, contemplino sorpresi l’andirivieni perpetuo dei gagé, come ci chiamano...
Michele Mannoia, «Zingari, che strano popolo! Storia e problemi di una minoranza esclusa», XL Edizioni, pp.192, €.16,00
Ne “Il quinto elemento” (1997) il regista Luc Besson ha invece immaginato un futuro dove interi pianeti saranno trasformati in villaggi vacanza, raggiungibili con gigantesche (astro)navi da crociera. Ma anche qui, a quanto pare, non saremo al sicuro dalle minacce dei terroristi... Tuttavia, per chiunque abbia visto anche una sola puntata di “Star Trek” - la prima serie andò in onda dal 1966 al 1969 - il viaggio futuribile per eccellenza non può essere che il teletrasporto. “Energia!” ordina il capitano Kirk, per poi dissolversi e ricomparire un istante più tardi sulla superficie di qualche strano pianeta; e dopo molte peripezie, l’episodio si conclude regolarmente con un trionfale “Mi faccia risalire, signor Scott”. Per curiosità, il teletrasporto fu introdotto per risparmiare sulle costose scenografie dei viaggi spaziali, e le scintillanti sequenze venivano realizzate facendo cadere su un foglio di cartone nero piccoli pezzi di alluminio.
Fantascienza? Probabilmente sì, ma nel suo ultimo libro l’astronomo e giornalista inglese David Darling non esclude che un giorno possa diventare realtà. Dopo tutto il teletrasporto è già stato realizzato pochi anni fa, sia pure soltanto per pochi metri, in laboratorio, e al livello di particelle subatomiche come i fotoni. Comunque abbastanza perché la rivista “Science” inserisse il teletrasporto pratico nella lista delle dieci innovazioni più significative del 1998. La ricerca si misura ora con atomi (con primi successi) e molecole. Beninteso, non dimentichiamo che un corpo umano del peso di circa 70 chilogrammi è composto da 7.000 trilioni di trilioni di atomi. Non dimentichiamo però nemmeno che nell’arco di una sola vita umana si è passati dal primo timido volo dei fratelli Wright (1903) alla discesa sulla Luna (1969)! Nella parte centrale del libro Darling racconta gli sviluppi teorici e gli esperimenti che hanno reso possibile il teletrasporto, aggirandosi tra meccanica quantistica, crittografia, computer di potenza quasi inimmaginabile, e quel misterioso fenomeno di collegamento istantaneo tra particelle che permane saldo e invariato anche se si trovano agli estremi opposti dell’Universo chiamato entanglement (“intreccio”). Con un meritorio sforzo di divulgazione riesce a rendere accostabili temi di complessità vertiginosa, che rifuggono dal senso comune. E anche se il lettore medio, privo di solide basi scientifiche, non riesce comunque a seguirlo, può però consolarsi con i capitoli iniziali e finali del libro, dove si ripercorre la storia culturale del teletrasporto, tra letteratura, cinema, televisione, e si delineano le implicazioni religiose, filosofiche e sociali che sorgerebbero in caso di successo del teletrasporto umano.
Vorreste essere dissolti atomo per atomo, sapendo che il vostro Io originale sarà distrutto, e sarete rimaterializzati da un’altra parte come copia di voi stessi con nuovi materiali, senza nemmeno un atomo in comune con l’originale? Ad essere trasportata alla velocità della luce, non sarà infatti la materia di cui siamo composti (sia pure sotto forma di energia), come ipotizzato in “Star Trek”, ma pura informazione. Sopravviverà la nostra anima all’inevitabile annullamento dell’originale? O tali paure appariranno presto ridicole, perché in fondo gli atomi sono tutti uguali, e anche il nostro corpo cambia continuamente? Forse in futuro solo pochi originali si negheranno il piacere del teletrasporto, come accade oggi a chi ha paura di volare. E se un giorno le cabine del teletrasporto diventeranno comuni come quelle del telefono, ecco che i “Viaggiatori d’Occidente” visiteranno un tempio indiano la mattina, pranzeranno a Shanghai, faranno shopping a New York nel pomeriggio, godranno del tramonto sul Machu Picchu, ceneranno in Francia, per poi rientrare a casa in tempo per dormire. E tutto nel pieno rispetto dell’ecologia, senza emissioni inquinanti.
È praticamente certo che non saremo noi i primi a sperimentare questa forma di viaggio. Probabilmente ci vorranno secoli, se mai sarà possibile. Ma se vi dovesse capitare, fate attenzione che una mosca non si posi su di voi proprio nell’istante in cui venite smaterializzati... (“La mosca”, 1986, remake di un film del 1958).
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(con la collaborazione di Maria Cristina Vanza)
Chi sono i grandi viaggiatori del nostro tempo? I turisti, certo: 850 milioni di arrivi internazionali nel 2006 non sono uno scherzo. Ma non sono i soli. Metterei nel conto anche i soldi. Infatti i (vostri?) grandi capitali si muovono incessantemente per il pianeta: finanziano una fabbrica in Cina, una piantagione in America Latina, dei pozzi petroliferi nel Medio Oriente. Vanno e vengono tra le Borse, anche quando sembrano tranquilli nei forzieri della banca. E poi ci sono i clandestini, che a milioni cercano disperatamente di risalire la corrente, di percorrere al contrario le stesse rotte dei turisti e del denaro, per arrivare nel ricco Occidente. Alcune regioni dove questi flussi si sfiorano, senza mescolarsi mai veramente, come il Mediterraneo o la frontiera tra Stati Uniti e Messico, sono divenuti dei luoghi simbolo del nostro tempo.
Un altro grande viaggiatore, al quale forse non si pensa subito, è poi senz’altro il cibo. I cuochi famosi si muovono vorticosamente per il mondo, le cucine si contaminano, si scambiano ricette e sapori nella fusion globalizzata. Il cibo si mescola con le altre forme di mobilità in modi curiosi: sospinti dalla passione imperante per l’enogastronomia, i turisti viaggiano anche per scoprire nuovi sapori, a volte per frequentare corsi di altre cucine. E la varietà, vera ricchezza del pianeta, per ora non manca. Per esempio l’80% della popolazione mondiale mangia circa duemila specie di insetti: in Papua Nuova Guinea si mangiano bruchi, in Messico cavallette, a Bali libellule, in America del Sud api coperte di cioccolato. Dopo tutto gli insetti sono artropodi come l’aragosta, il granchio e i gamberetti... Per inciso la pratica potrebbe anche essere salutare: gli insetti hanno meno calorie e meno colesterolo della carne (www.eatbug.com; per acquisti on-line, tra cui formiche o un lecca lecca di scorpione www.edible.com). In ogni caso, dovunque siate, provate sempre i cibi locali, più o meno estremi: fa parte dello spirito del viaggio. E se avete dubbi igienici, non badate all’aspetto del cibo (facilmente adulterabile) ma a quello di chi ve lo vende: se il venditore è pulito, e se la gente del posto frequenta il locale, potete essere sicuri che il cibo è fresco e buono.
Il cibo è una parte importante anche nella vita delle diaspore, cioè dei gruppi che l’emigrazione ha separato dalla comunità cui appartengono. Chi è lontano sente spesso il bisogno di riaffermare la propria identità, e così le diaspore sono spesso molto fedeli alla tradizione in cucina; può capitare che un piatto tipico si gusti nella versione più “autentica” in una delle nostre città, piuttosto che nel Paese d’origine. E quanti sforzi, quanta fantasia per far arrivare gli ingredienti attraverso i percorsi più strani, o per adattare prodotti locali. Anche in Ticino ci sono ormai degli Asian market: per esempio vi si può trovare la puzzolente salsa di pesce fermentata thailandese (disponibile anche nella versione vegetariana importata dal Vietnam), ingrediente essenziale per la Som tam, un’insalata di papaya verde, o la minestra agrodolce Tom yum; ma anche le verdure fresche più strane coltivate a migliaia di chilometri e importate dai grossisti di Zurigo, che ogni settimana riforniscono la rete dei piccoli rivenditori locali.
Procurarsi il cibo tradizionale è particolarmente importante quando esso è parte fondamentale di una cerimonia religiosa: nel solo caso degli Ebrei, per esempio, impensabile celebrare la Festa delle capanne (Sukkot) senza un perfetto frutto di cedro, per ciascuno dei quali si pagano anche cento euro (i migliori vengono dalla Calabria), mentre il dattero è indispensabile per preparare l’haroset, una sorta di marmellata che non può mancare nella cena di Pasqua (Seder), e che rappresenta simbolicamente la malta usata dagli ebrei durante la schiavitù in Egitto per costruire le città del faraone.
Quando la comunità migrante acquista sicurezza di sè, si apre gradualmente all’esterno, e molte volte un ristorante che proponga le proprie ricette è il primo canale di comunicazione con la nuova Patria, il passo d’avvio nel lungo cammino dell’integrazione. I turisti vi ricercano i sapori scoperti in viaggio o forse, al contrario, molti viaggi iniziano proprio lì, nel ristorante etnico sotto casa. I primi, e per lungo tempo unici, furono i ristoranti francesi e spagnoli, per l’Europa, cinesi e indiani per l’Asia, ma oggi la cucina etnica offre numerose proposte molto diverse: eritrea, egiziana, turca, thailandese, coreana, brasiliana, messicana e via dicendo. E così, in una grande città, si potrebbe immaginare un giro del mondo di locale in locale, di portata in portata, senza allontanarsi da casa. Il fenomeno è tanto cresciuto, che sono disponibili alcune guide specializzate: “Pappamondo 2008. Guida ai ristoranti stranieri e ai negozi di alimentari etnici” (Terre di mezzo, 2007, € 10,00) è giunta ormai alla decima edizione, con volumi distinti per Milano, Roma e Genova. La sola edizione milanese segnala più di 450 ristoranti, di cui 85 nuovi. Il Touring Club Italiano propone invece un’edizione su scala nazionale, attenta anche alle minoranze linguistiche italiane (“Ristoranti etnici”, Il Viaggiatore-Touring Editore, 2007, € 10,00). In Canton Ticino ovviamente la scelta è più limitata, ma qualche ristorante si trova (sarebbe interessante poter disporre di un “Pappamondo Ticino”! C’è invece solo una sezione di una guida ormai datata: la “Guida multietnica del Canton Ticino e della Provincia di Como", Ikona edizioni, 2003).
A Torino con questo spirito – l’iniziativa si chiama “Turisti per casa” – negli ultimi due anni circa mille persone hanno partecipato ai percorsi ideati dal giornalista e gastronomade Vittorio Castellani, alias Chef Kumalé (www.ilgastronomade.com), nel quartiere multietnico di Porta Palazzo, dove convivono 143 nazionalità diverse. Basta percorrere poche centinaia di metri e, girando l’angolo, si passa da un Paese e da un continente all’altro. I partecipanti hanno potuto così apprezzare i profumi di un tè con la menta sorseggiato in una caffetteria araba, l’aroma del pane egiziano appena sfornato, o il cous cous della gastronomia maghrebina all’ora di pranzo del venerdì. Sui banchi del mercato coperto il contadino cinese espone orgoglioso il suo raccolto di zucche serpente, fagiolini chilometrici e...foglie di crisantemi (si mangiano come se fossero spinaci, mentre con i i fiori essiccati si preparano tisane); e spesso sono prodotti coltivati negli orti urbani di periferia.
Per inciso, se le comunità migranti fanno ogni sforzo per mantenere un legame con i prodotti del loro territorio, anche noi dovremmo fare lo stesso. C’è anche molto, troppo cibo che viaggia, e non dovrebbe. Carne, verdure e frutta senza qualità particolari percorrono grandi distanze dalle zone di produzione a quelle di consumo solo perché il loro prezzo finale risulta più conveniente, magari solo di qualche centesimo, o per avere primizie insapori. Dal punto di vista sia del gusto, che sociale, culturale e ambientale, molto meglio seguire la “dieta delle cento miglia” (Hundred food miles diet, http://100milediet.org) utilizzando di norma, e nella giusta stagione, i prodotti del territorio circostante. Vivere la nostra modernità richiede anche questo sapersi destreggiare tra locale e globale: e in questo caso capire che di patate o mele globetrotter possiamo fare tranquillamente a meno.
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Come andare a Cannes senza vederla
“È andato a Roma senza vedere il Papa” si diceva un tempo dei viaggiatori che non sapevano riconoscere quel che meritava di essere visto. A Cannes tuttavia è difficile sbagliare, poiché gli itinerari nei dintorni reggono il confronto con le attrazioni mondane più note, specie per chi è appassionato di storia, letteratura e natura.
Per esempio col traghetto si possono raggiungere le Îles de Lérins, che sorgono di fronte a Cannes. La prima e maggiore è l’isola Sainte-Marguerite, una vasta riserva naturale solcata da sentieri che si snodano tra foreste di pini e di eucalipti. La Fortezza reale dell’isola fu per lungo tempo prigione di Stato, e qui nel 1687 fu condotto sotto scorta uno dei più misteriosi prigionieri d’ogni tempo, l’uomo dalla “maschera di ferro”, del quale si può ancora visitare la cella. Vi resterà per undici anni, alimentando le voci più diverse sulla sua identità, tra cui quella che fosse il gemello segreto di Luigi XIV, il Re Sole, allontanato dalla corte alla nascita per evitare contestazioni sulla successione. Per prepararsi è d’obbligo leggere la versione romanzesca che ne offre Alexandre Dumas ne “Il Visconte di Bragelonne”, a conclusione della trilogia dei tre moschettieri, o vedere il film “La maschera di ferro” (1998).
A breve distanza s’incontra la piccola isola di Saint-Honorat, uno dei luoghi più importanti nel processo di cristianizzazione dell’Occidente. Sede monastica tra le più antiche (410 d.C.), qui studiò san Patrizio, che avrebbe poi convertito l’Irlanda. Vi sorge un’abbazia e un monastero fortificato, memoria delle molte scorrerie subite: la più grave nel 732, quando l'abate e cinquecento monaci, attaccati dai saraceni, furono trucidati. Per seguire le tracce dei terribili pirati potete spingervi fino al golfo di St-Tropez: a Frassineto (oggi Garde-Freinet) intorno al 889 avevano stabilito un’imprendibile fortezza, da dove per secoli terrorizzarono vaste zone (giunsero sino a stabilire un avamposto a St.Moritz, mostrando così una certa predilezione per i luoghi turistici). Solo un secolo dopo il Conte Guglielmo di Provenza riuscì a stanarli.
Volgendo invece le spalle a Cannes e al mare, dopo una ventina di chilometri lungo la Route Napoléon (la via che il sovrano percorse tornando dall’Elba per i suoi ultimi Cento giorni) s’incontra la bella città di Grasse, la “capitale mondiale del profumo”, che da sola realizza i due terzi della produzione francese in questo campo (Dior, Chanel). Il microclima ha incoraggiato, sin dal Settecento, la coltivazioni di fiori per essenze: lavanda, rosa, viola e soprattutto gelsomino (27 tonnellate di produzione annua!), celebrato nella grande Fête du Jasmin all’inizio d’agosto. Si visitano antiche profumerie, e un Museo dei profumi.
Davanti a voi si spalancano ormai le Alpi Marittime. Potete dimenticare il mare, e darvi agli sport all’aria aperta: bicicletta, canoa, arrampicata, parapendio... oppure passeggiare tra le colline di olivi, visitando piccoli villaggi medioevali, come Vence, che attirò pittori famosi, da Chagall a Matisse. Quest’ultimo, tra il 1948 e il 1951, decorò "La Cappella del Rosario", da molti considerata il suo testamento artistico, nei toni del bianco, giallo e blu. Vista da qui, la mondana Croisette vi sembrerà molto, molto lontana...
«Sulla bella costa della Riviera francese, a mezza strada tra Marsiglia e il confine italiano, sorge un albergo rosa, grande e orgoglioso. Palme deferenti ne rinfrescano la facciata rosata, e davanti a esso si stende una breve spiaggia abbagliante. Recentemente è diventato un ritrovo estivo di gente importante e alla moda; dieci anni fa, quando in aprile la clientela inglese andava verso il Nord, era quasi deserto. Ora molte villette vi si raggruppano intorno; ma quando questa storia incomincia, soltanto i tetti di una dozzina di vecchie ville marcivano come ninfee in mezzo ai pini ammassati tra l'Hotel des Etrangers di Gausse e Cannes, otto chilometri più in là.»
Riconosciuto? È il celebre incipit di “Tenera è la notte”, di Francis Scott Fitzgerald, pubblicato nel 1934, che racconta come fu “inventata” la nuova vita turistica sulla Riviera negli anni Venti del Novecento. I protagonisti del romanzo sono in parte ispirati all’autore stesso e a sua moglie Zelda, ma i loro tratti furono mescolati con quelli di Gerald e Sara Murphy (nella finzione Dick e Nicole Diver), una ricchissima coppia di americani espatriati che ospitavano nella loro Villa America artisti e scrittori famosi come Pablo Picasso, Dorothy Parker e John Dos Passos.
Sino ad allora la stagione turistica della Riviera si limitava strettamente all’inverno, quando migliaia di villeggianti vi soggiornavano oziosi godendo del clima mite, dividendo il loro tempo tra visite reciproche, interminabili passeggiate lungo la celebre Promenade des Anglais di Nizza e qualche puntata nei casinò. Ma nel clima di spensierato ritorno alla normalità dopo la Prima guerra mondiale queste antiche consuetudini apparvero rapidamente superate. Si diffondeva una nuova vita estiva veloce, informale, divertente: corse in auto, cocktail in piscina e improvvisati pranzi in terrazza, con l’immancabile sottofondo di musica jazz che accompagnava il nascere di amori estivi. Lontano da casa si poteva vivere una vita diversa, assumere nuove identità, sperimentare piacevoli trasgressioni.
La maggior parte del tempo si trascorreva in spiaggia a scherzare, nuotare, uscire al largo con la barca a vela. La spiaggia, da sempre considerata uno spazio del tutto trascurato e inutile, acquistò una nuova centralità durante le vacanze. Molte regole, che oggi ci paiono scontate, furono definite e adottate: delimitare e presidiare il proprio spazio con asciugamani, sdraio e ombrelloni; impiegare un tempo infinito con svaghi infantili (i castelli di sabbia!); soprattutto occuparsi del proprio corpo, impietosamente esposto agli sguardi altrui. In particolare abbronzarsi era la moda del giorno. Sino ad allora la pelle bruna era caratteristica di chi svolgeva i lavori più umili, all’aria aperta - contadini, pescatori, operai – e solo pochi nordici stravaganti, Tedeschi o Scandinavi, si offrivano liberamente al sole. La bellezza femminile celebrava la pelle di luna, protetta da creme, guanti, cappellini, velette. Occorreva una donna di gusto e di successo che legittimasse la nuova moda, e questa fu la celebre stilista Coco Chanel, abituale frequentatrice della Costa Azzurra negli anni Venti. La donna di Chanel si muove con un’inedita libertà e indipendenza nel mondo maschile, e in spiaggia si offre sicura agli sguardi in pantaloncini corti e con le braccia nude: la strada verso il bikini, introdotto nel 1946, era aperta. Il successo, e l’imitazione, fu immediato: del resto, come scrisse Leopold Fetchner, «un uomo sulla Luna non sarà mai interessante quanto una donna sotto il Sole». Un turista che occupava una villa a Cannes nell’estate del 1924 ricorda: «Ci mettemmo subito a prendere il sole, che allora era una novità. Un sacco di cura del sole, una cura del sole esagerata. Era uno studio, richiedeva tempo, ore e ore a prendere la tintarella».
Nel 1931 gli albergatori della Côte d’Azur si riunirono e alla luce delle novità, pur con qualche dubbio, decisero di rimanere aperti anche d’estate: era nata la “civiltà balneare”. Curiosamente tutto fu inventato qui, in questo piccolo angolo del Mediterraneo; e da qui fu esportato senza sostanziali modifiche nel resto del mondo, quando il turismo di massa si affermò dopo la Seconda guerra mondiale, creando un impero sul quale il Sole non tramonta mai.
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Un giovane storico ha scommesso - con successo - sulla possibilità di rileggere attraverso questo luogo così particolare la modernizzazione del secondo dopoguerra (Simone Colafranceschi, “Autogrill. Una storia italiana”, Il Mulino, Bologna 2007, pp.126, € 16,00). Infatti l’autogrill è parte di un percorso verso nuovi stili di vita e nuovi consumi alimentari, e propone una “sosta americana” a un paese ancora prevalentemente rurale. Si può immaginare la perplessità dei primi clienti di fronte al pranzo-tipo, che nel 1959, al costo di 750 lire, offre: consommé, rost-beef o pollo alla griglia con patate, chips, burro, formaggio e crackers Soda Pavesi, dolce con Pavesini. Niente pasta o pane, l’automobilista deve restare sempre leggero e vigile! E di lì a poco anche i rassicuranti camerieri saranno sostituiti dal self-service, aprendo al via ai fast-food.
A metà degli anni ‘50 l’autogrill si diffonde a macchia d’olio con il boom delle costruzioni autostradali, di cui sono simbolo la FIAT Seicento (1954) e l’Autostrada del Sole (1956). La stazione di sosta diventa anche monumento: a Lainate, sulla Milano-Laghi, tre arcate innalzano il marchio Pavesi a 50 m. di altezza, sopra a un ampio salone circolare vetrato, mentre a Fiorenzuola d’Arda si realizza il primo autogrill a ponte d’Europa. L’industria alimentare associa a sé quella petrolifera: Pavesi si unisce a Esso, BP e Motta creano gli eleganti “Mottagrill”, l’Agip di Enrico Mattei e Alemagna preferiscono puntare su sobri ma efficienti autobar. L’epica stagione di competizione si chiude nella seconda metà degli anni ’60, quando la crisi del capitalismo familiare porta gli autogrill sotto il controllo della “borghesia di Stato” della SME, la finanziaria del gruppo IRI. La crisi petrolifera del 1973 chiude la stagione d’oro degli autogrill; nel 1977 tutti gli esercizi di ristorazione autostradale vengono riuniti in Autogrill SpA, che a metà degli anni Novanta viene privatizzata, e passa nell’orbita del gruppo Benetton.
A sessant’anni dalla nascita dell’autogrill, e a trenta da Autogrill SpA, il gruppo produce il proprio fatturato più all’estero che in Italia, e più negli aereoporti che nelle autostrade. Ogni anno gli autogrill continuano a sfornare milioni di caffè e di panini dai nomi improbabili, ma la sosta è sempre più breve e puramente funzionale. Dopo aver attraversato tante vicende della nostra storia, la funzione dell’autogrill è dunque esaurita? Bollati dagli intellettuali come “non-luoghi” di anonima modernità, gli autogrill si difendono proponendo alimenti del territorio a denominazione d’origine controllata, gli stessi che in origine avevano sdegnato: l’Italia all’amatriciana ha sconfitto l’Italia all’americana?
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